La diplomazia, quando si avvicina alla pace, raramente procede in linea retta. Più spesso avanza per attriti, esitazioni, silenzi carichi di significato. L’arrivo dell’inviato statunitense Steve Witkoff a Berlino, per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i leader di Francia, Germania e Regno Unito, si colloca esattamente in questa zona grigia: quella in cui la fine della guerra appare possibile, ma il prezzo politico di una tregua resta incerto, divisivo, potenzialmente destabilizzante.
Il negoziato che prende forma nella capitale tedesca non riguarda solo l’Ucraina e la Russia. Riguarda l’Occidente nel suo insieme, soprattutto il rapporto di forza e di visione tra Washington e le principali capitali europee. La proposta statunitense, che secondo le indiscrezioni include ipotesi di compromesso sul controllo del Donbass e sulla configurazione futura delle forze militari ucraine, ha già prodotto fratture evidenti. Non tanto sul fine dichiarato, la cessazione delle ostilità, quanto sul metodo e sulle conseguenze di lungo periodo.
Per Kiev, il rischio è esistenziale. Ogni discussione territoriale viene percepita come una possibile normalizzazione dell’aggressione russa, una legittimazione ex post della forza. Zelensky si muove su un crinale difficile: accettare il dialogo senza apparire disposto a sacrificare la sovranità, mantenere il sostegno occidentale senza perdere il consenso interno. La sua presenza a Berlino non è solo diplomatica, è simbolica: serve a ricordare che l’Ucraina non è oggetto del negoziato, ma soggetto politico che rivendica voce piena sul proprio destino.
Gli europei, dal canto loro, arrivano divisi ma consapevoli della posta in gioco. Francia e Germania guardano alla pace come a una necessità strategica per la loro stabilità, provata da anni di guerra, inflazione energetica e tensioni sociali. Il Regno Unito mantiene una linea più rigida, attento a non trasmettere segnali di cedimento che potrebbero rafforzare la postura russa. Dietro le differenze, però, si nasconde una domanda che tutti ci poniamo: quale ordine europeo emergerà dal dopoguerra ucraino?
Gli Stati Uniti osservano il quadro con una prospettiva più ampia. Per Washington, l’Ucraina resta un fronte cruciale, ma non l’unico. La competizione con la Cina, le tensioni in Medio Oriente, la sostenibilità politica e finanziaria di un conflitto prolungato spingono l’amministrazione americana a esplorare soluzioni che congelino il fronte europeo senza compromettere la credibilità strategica. Da qui l’insistenza su un piano che non sia una resa, ma un riequilibrio, un riallineamento: una pace imperfetta, forse, ma funzionale a una ridefinizione delle priorità globali.
Ed è proprio questo il nodo più delicato del confronto di Berlino. Per molti governi europei, una pace che lasci irrisolta la questione territoriale rischia di trasformarsi in un precedente pericoloso, capace di minare il principio di inviolabilità dei confini. Per Washington, invece, il rischio opposto è quello di un conflitto cronicizzato, che consuma risorse e attenzione strategica senza produrre un esito decisivo.
Il tavolo negoziale diventa così uno specchio delle divergenze interne all’Occidente: non una frattura irreversibile, ma una tensione reale tra chi privilegia la stabilità immediata e chi teme le conseguenze di lungo periodo. La Russia, pur non presente fisicamente a Berlino, resta il convitato di pietra: osserva, misura, valuta quanto spazio di manovra le viene lasciato da un fronte occidentale che cerca la pace senza voler apparire vulnerabile.
In questo contesto, Berlino assume un valore simbolico ulteriore. Città della divisione e della ricomposizione europea, teatro di una trattativa che non riguarda solo la fine di una guerra, ma la forma futura della sicurezza continentale. La pace, se arriverà, non sarà il risultato di un accordo lineare, ma di un equilibrio instabile tra deterrenza, compromesso e memoria storica.
Il negoziato è appena entrato nella sua fase più sensibile. Non è detto che produca risultati immediati. Ma una cosa è certa: da questo confronto emergerà non solo una possibile via d’uscita dal conflitto ucraino, bensì un’indicazione chiara su come Stati Uniti ed Europa intendano esercitare il proprio ruolo nel mondo che si sta ridisegnando. La pace, oggi, è una questione di strategia prima ancora che di volontà.








