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POLITICA

GENOCIDIO PAROLA CONSUMATA DI UN CORTOCIRCUITO MORALE

GENOCIDIO PAROLA CONSUMATA DI UN CORTOCIRCUITO MORALE

Il mondo alla rovescia: quando l’accusa ha sostituito i fatti. La parola arriva sempre prima dei fatti. Arriva già carica, già assoluta, già conclusiva. Quando compare, la discussione è finita. Non chiede verifiche, non tollera dubbi. Pretende solo adesione.
“Genocidio”.

Negli ultimi anni è diventata la parola più pronunciata e la meno spiegata del lessico politico globale. Viene evocata nei tribunali internazionali, nelle aule dell’ONU, nei talk show, nei social network. Cambiano i contesti, cambiano gli accusati, ma il meccanismo resta lo stesso: l’accusa precede l’analisi, la condanna sostituisce il giudizio.
Il Sud Africa accusa Israele di genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. La Russia parla di genocidio mentre invade l’Ucraina. L’Iran, dove dissidenti e donne finiscono in prigione o peggio, siede nei consessi internazionali e utilizza il linguaggio dei diritti umani con sorprendente disinvoltura. Tutto questo accade nello stesso spazio simbolico, nello stesso tempo storico, spesso sotto gli stessi emblemi istituzionali.
Non è una semplice contraddizione geopolitica. È qualcosa di più profondo. Un cortocircuito morale.
Viviamo in un’epoca in cui l’accusa è diventata più potente dei fatti che dovrebbe dimostrare. Non serve più costruire una narrazione coerente, né affrontare la complessità dei dati, delle responsabilità, delle proporzioni. Basta collocare l’avversario nel campo del male assoluto. Una volta fatto questo, ogni domanda diventa sospetta, ogni dubbio è complicità.
Il termine “genocidio” nasce per indicare l’annientamento sistematico e intenzionale di un popolo. Era una parola estrema, pensata per un crimine estremo. Oggi è diventata una formula politica ricorrente, uno strumento di delegittimazione totale. Viene usata, riusata, stirata fino a perdere consistenza. E quando la parola che dovrebbe rappresentare l’orrore ultimo diventa linguaggio ordinario, il problema non è solo l’ingiustizia verso chi viene accusato. È la svalutazione dell’orrore stesso.
Il paradosso è sotto gli occhi di tutti, ma raramente viene affrontato. Stati e regimi con storie documentate di repressione, violazioni dei diritti, pulizie etniche o violenze sistematiche si propongono come giudici morali della comunità internazionale. Non perché abbiano improvvisamente risolto i propri conti con il passato, ma perché l’accusa funziona. Perché sul piano simbolico delegittimare è più efficace che dimostrare.
Non si tratta, qui, di assolvere o condannare qualcuno in particolare. Questo è il punto che fatica di più a passare in un’opinione pubblica ormai educata al tifo permanente. Il problema non è “da che parte stare”. Il problema è capire che il meccanismo dell’accusa globale sta progressivamente sostituendo il giudizio critico.
Quando tutto è genocidio, niente lo è più.
Quando ogni conflitto viene assimilato ad Auschwitz, Auschwitz perde la sua unicità storica.
Quando la parola più grave del vocabolario politico diventa uno slogan, le vittime reali finiscono sullo sfondo, ridotte a rumore.
A questa inflazione del linguaggio si aggiunge un’altra distorsione, più sottile ma altrettanto pericolosa: l’idea che la legittimità formale equivalga automaticamente a credibilità morale. L’ONU è diventata il teatro ideale di questo equivoco. Sedersi a un tavolo non rende giusti. Parlare il linguaggio dei diritti non significa rispettarli. Eppure, nel mondo contemporaneo, la forma ha divorato la sostanza.
Regimi che imprigionano oppositori, censurano la stampa, reprimono minoranze religiose o etniche utilizzano senza imbarazzo la retorica del diritto internazionale. Non è ipocrisia nel senso tradizionale del termine. È qualcosa di più freddo, più razionale: uso strategico della morale come arma politica.
Il risultato è una memoria storica sempre più selettiva. Il passato non serve più a comprendere, ma a colpire. Si ricorda solo ciò che rafforza la propria accusa, si dimentica ciò che potrebbe incrinare la narrazione. La storia non è più maestra: è un arsenale.
In questo scenario, il cittadino non è confuso perché mal informato. È confuso perché sommerso da narrazioni assolute e incompatibili, tutte formulate con lo stesso lessico definitivo. Ogni parte parla di crimini supremi, di male radicale, di linee rosse invalicabili. Ma quando tutti gridano allo stesso modo, l’ascolto si spegne. La distinzione scompare.
Il rischio più grande non è scegliere la parte sbagliata. È smettere di credere che esista una parte giusta. È il cinismo come approdo finale: l’idea che tutti mentano, che tutto sia propaganda, che nulla abbia più un valore morale reale. Un mondo in cui l’indignazione è automatica, intercambiabile, quindi sterile.
C’è una domanda che raramente viene posta, perché mette a disagio: può accusare chi non ha mai fatto i conti con il proprio passato? Può ergersi a giudice universale chi rimuove le proprie colpe storiche o nega le violazioni presenti? Non è una provocazione. È una questione di credibilità.
La giustizia internazionale, per funzionare, ha bisogno di due elementi essenziali: rigore nei fatti e sobrietà nelle parole. Oggi sembrano mancare entrambi. Le parole sono inflazionate, i fatti piegati. E quando il linguaggio perde precisione, il potere vince sempre, perché può riempire i concetti di qualsiasi significato gli convenga.
Il mondo non è diventato improvvisamente più crudele. È diventato più disonesto nel raccontarsi. Il vero “mondo alla rovescia” non è quello in cui esistono guerre, violenze o conflitti - quelli sono sempre esistiti. È quello in cui la morale viene usata come strumento di guerra, non come limite alla guerra.
Forse il primo gesto realmente controcorrente, oggi, non è schierarsi più forte. È rallentare. Chiedere prove. Distinguere i piani. Rifiutare il linguaggio totale. Ricordare che non tutto ciò che è tragico è genocidio, e che chiamare tutto genocidio non rende il mondo più giusto, ma solo più opaco.
In un’epoca in cui tutti accusano, la vera forma di resistenza è tornare a giudicare. Con memoria. Con misura. Con responsabilità. Anche quando questo significa accettare che la realtà è meno semplice - e molto meno rassicurante - delle narrazioni che ci vengono offerte.

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