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OPINIONI

L'ILLUSIONE COLLETTIVA

L'ILLUSIONE COLLETTIVA

L'illusione collettiva: perché il mondo non verrà a salvarti (e come sopravvivere alla verità)

Nella rarefatta atmosfera del XXI secolo, dove ogni gesto umano viene filtrato attraverso schermi, algoritmi e narrative preconfezionate, si consuma un paradosso esistenziale che nessun influencer osa nominare.
Mentre l'umanità raggiunge picchi tecnologici inediti, l'individuo sprofonda in un isolamento iperconnesso, vittima di un inganno sistemico che trasforma la fragilità in merce e la solitudine in business model.
Questo non è un manifesto contro il progresso, ma un'autopsia della menzogna più subdola: l'idea che qualcuno – lo Stato, gli affetti, la comunità – abbia il dovere esistenziale di salvarci da noi stessi.
Da Prometeo ai social network, l'essere umano ha sempre barattato frammenti di autonomia in cambio di rassicurazioni.
Oggi però il patto si è fatto canceroso, le istituzioni promettono sicurezza in cambio di libertà, gli algoritmi offrono connessione in cambio di identità, i guru della crescita personale vendono risposte a domande che non abbiamo posto.
In questo bazar globale delle dipendenze emotive, l'adulto contemporaneo si trasforma in un eterno orfano digitale, sempre in attesa del prossimo salvatore – politico, sentimentale, spirituale – che tarderà a presentarsi.
La cruda verità? Nessuno verrà. Non per cattiveria, ma perché il sistema stesso si nutre della nostra impotenza delegante.
Ogni like è un'applauso posticcio, ogni "ci sono sempre" un assegno senza copertura.
Osservando i dati dell'ISTAT sui nuclei monocomponenti (+41% dal 2000) e le ricerche Google su "senso di abbandono" (+290% nell'ultimo quinquennio), emerge un quadro clinico preciso, stiamo collettivamente sperimentando la sindrome da dipendenza da salvatore inesistente.
Le relazioni si trasformano in transazioni emotive a termine, i legami sociali in polvere digitale priva di collante esistenziale.
Quando cadiamo – e cadiamo tutti – il rumore del vuoto risuona più forte delle parole non mantenute.
Non è cinismo, ma termodinamica sociale: in un'epoca di connessioni infinite, l'impegno concreto ha raggiunto l'entropia massima.
Resistere a questa deriva richiede più che resilienza: esige un'eresia.
Quella di Nietzsche riletta attraverso il prisma dell'antropologia digitale, diventare ciò che si è smettendo di chiedere permesso all'universo.
Non si tratta di abbracciare un cinico individualismo, ma di praticare un nuovo tipo di comunione – con se stessi prima che con gli altri.
Il cervello umano raggiunge picchi di plasticità quando costretto ad autodeterminarsi senza reti di sicurezza. È la paradossale legge dell'autosufficienza: più rinunciamo all'illusione del salvatore esterno, più sviluppiamo quelle connessioni neurali che trasformano il caos in risorsa.
Ironia suprema del nostro tempo, mai siamo stati così capaci di comunicare, mai così incapaci di chiedere aiuto autentico.
I social media hanno creato una nuova forma di analfabetismo emotivo, sappiamo scrivere "ti voglio bene" in 140 caratteri, ma non riconosciamo più il peso specifico di un abbraccio non mediato da emoji.
L'OMS parla di "pandemia da solitudine", le case farmaceutiche registrano picchi nelle vendite di antidepressivi, eppure continuiamo a cercare salvezza nelle stesse piattaforme che lucrano sulla nostra disperazione.
È il circolo vizioso perfetto, più gridiamo il nostro vuoto nel digitale, più alimentiamo il sistema che lo ha creato.
Fare da soli non significa rinchiudersi in una torre d'avorio, ma diventare architetti della propria vulnerabilità.
È qui che nasce la vera rivoluzione, nel coraggio di chiedere senza pretendere, di offrire senza mercificare, di esistere senza giustificarsi.
I casi studio delle comunità di resilienza urbana – da Copenhagen a Seoul – dimostrano che quando gli individui smettono di attendere salvezza esterna, diventano catalizzatori di cambiamento sistemico.
Non è un paradosso, ma un principio fisico, la pressione esercitata da milioni di micro-autonomie può scardinare persino i sistemi più sclerotizzati.
Il segreto che nessun algoritmo può calcolare? La nostra incompiutezza non è un difetto da correggere, ma il motore stesso dell'evoluzione umana.
Ogni volta che rinunciamo a delegare la nostra esistenza, ogni volta che trasformiamo il vuoto in spazio creativo, scriviamo un nuovo capitolo dell'antropocene.
Non serve essere eroi, basta smettere di recitare la parte della vittima in attesa del deus ex machina.
Il mondo non verrà a salvarci – e forse, finalmente, è questa la buona notizia che aspettavamo.
Perché nella crudele, magnifica solitudine della responsabilità individuale si nasconde il codice sorgente di ogni autentico progresso collettivo.

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