Gaza, la guerra con sé stessi: il doppio volto di Hamas e il fragile equilibrio del Medio Oriente
“Il nemico è spesso dentro di noi, non di fronte a noi.” — Mahatma Gandhi
“Ogni guerra comincia nel cuore dell’uomo, prima che sul campo di battaglia.” — Albert Camus
Gaza è oggi il simbolo di una guerra che non si combatte soltanto tra due nemici, ma dentro le stesse mura del potere, nei corridoi clandestini e nelle menti divise di chi non sa più quale sia il confine tra resistenza e autodistruzione.
La notizia della spaccatura interna di Hamas sul cosiddetto piano Trump — una proposta che promette la fine del conflitto a Gaza in cambio della consegna degli ostaggi e della rinuncia alle armi — non è solo un episodio di politica mediorientale: è lo specchio di una crisi identitaria profonda, che riguarda un popolo, un’ideologia e il futuro stesso della regione.
Dietro le immagini dei droni, delle macerie e delle riunioni segrete a Doha o Teheran, si muove una battaglia invisibile, più pericolosa di quella combattuta con i missili: la guerra dell’anima, la lotta tra il passato eroico della resistenza e la necessità di sopravvivere nel presente. Hamas, nato come movimento di liberazione, si trova ora a dover scegliere se restare prigioniero della propria mitologia o tentare la metamorfosi in un soggetto politico capace di trattare e governare.
Il cuore del conflitto: la frattura interiore
“Ogni guerra comincia nel cuore dell’uomo, prima che sul campo di battaglia.” — Albert Camus
Ogni rivoluzione, diceva Camus, porta con sé il rischio di corrompersi quando smarrisce la misura. È ciò che sta accadendo a Hamas, intrappolato tra la propria vocazione ideologica e il peso delle rovine che Gaza non riesce più a sopportare.
Da mesi si parla di una divisione netta tra l’ala militare, rappresentata dal braccio armato delle Brigate al-Qassam, e l’ala politica, concentrata nei palazzi di Doha e Istanbul.
Il punto di rottura è proprio il piano di cessate il fuoco mediato da Stati Uniti, Qatar ed Egitto: accettarlo significherebbe riconoscere implicitamente la sconfitta militare e la necessità di una nuova forma di gestione del potere a Gaza.
Rifiutarlo, al contrario, significherebbe condannare la Striscia a un assedio perpetuo, a una sopravvivenza che non è più vita, ma abitudine al dolore.
Molti analisti vedono in questa tensione il segno di una metamorfosi mancata: Hamas avrebbe potuto, dopo il 2006, trasformarsi da movimento rivoluzionario a forza politica; ma la logica della resistenza permanente ha divorato ogni prospettiva di compromesso.
Eppure, oggi, una parte crescente dei suoi dirigenti comprende che la sopravvivenza del popolo palestinese non può più dipendere solo dalle armi. È una consapevolezza dolorosa, perché significa mettere in discussione la legittimità stessa della lotta armata come fondamento dell’identità palestinese.
Politica e sopravvivenza: il doppio volto del potere
“I popoli raramente si distruggono per il nemico esterno; più spesso cadono per le divisioni interne.” — Niccolò Machiavelli
Il Medio Oriente vive da decenni sospeso tra realpolitik e ideologia. Gaza non è un’isola isolata dal resto del mondo arabo: è il termometro delle sue contraddizioni.
Da un lato, Iran e Hezbollah vedono nella resistenza palestinese un tassello strategico del fronte anti-israeliano; dall’altro, paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti perseguono la normalizzazione con Israele come via per la stabilità regionale.
In questo scenario, Hamas è diventato una pedina contesa, prigioniera di alleanze che ne limitano l’autonomia.
Le sue divisioni interne riflettono le linee di frattura dell’intero Medio Oriente: l’asse sciita contro quello sunnita, il pragmatismo contro il fondamentalismo, la diplomazia contro la fede.
Il piano Trump, nella sua forma rivisitata da Washington e Doha, propone un cessate il fuoco graduale, la creazione di una forza di sicurezza palestinese sotto supervisione internazionale, e l’avvio di un processo di ricostruzione finanziato dai paesi del Golfo.
Per la prima volta da anni, la possibilità di un compromesso reale non sembra un miraggio, ma un rischio calcolato.
Il problema è che, per Hamas, scendere a patti equivale a tradire un mito.
Il suo potere si fonda sulla narrativa del sacrificio, sull’immagine della resistenza invincibile. Accettare un piano di pace significherebbe riconoscere di aver perso, non solo militarmente ma moralmente.
Eppure, per una generazione di palestinesi nati sotto l’assedio, la vittoria non è più distruggere Israele, ma vivere una vita normale.
In questa tensione si gioca la sopravvivenza del movimento e, in fondo, del sogno palestinese stesso.
Molti giovani, stremati dalla guerra e dalla povertà, non credono più nelle promesse dei leader.
Internet, i social e le immagini di un mondo che va avanti altrove hanno incrinato il mito della resistenza eterna.
La nuova resistenza, oggi, è resistere al fanatismo.
Il trauma e la memoria: Gaza come prigione dell’anima
“Non c’è pace nel deserto quando il fuoco arde dentro le tende.” — proverbio arabo
A Gaza, la guerra non finisce quando smettono i bombardamenti.
Continua nei corpi, nelle menti, nei bambini che disegnano missili al posto del sole.
La psicologia collettiva della popolazione è segnata da un trauma generazionale: la perdita della casa, della sicurezza, del futuro.
E Hamas, che pure si presenta come il difensore del popolo, non può più ignorare il dolore invisibile che attraversa la società civile.
Nelle ultime settimane, testimonianze di medici e psicologi di organizzazioni umanitarie raccontano una realtà devastante: famiglie intere che non parlano più, adolescenti che rifiutano di immaginare un domani, donne che scelgono il silenzio come unica forma di protezione.
È un’umanità sospesa tra il bisogno di credere e la stanchezza di soffrire.
Il trauma collettivo di Gaza è alimentato non solo dalle bombe israeliane, ma anche dall’impossibilità di pensare un futuro libero dalla logica della milizia.
La società civile palestinese, spesso soffocata e frammentata, rappresenta oggi l’unica forza autenticamente rivoluzionaria: non quella che spara, ma quella che cura, educa, e cerca di costruire un senso anche tra le rovine.
Questa è la guerra con sé stessi di cui parlava Gandhi: una lotta tra l’orgoglio e la compassione, tra il diritto alla difesa e la tentazione dell’odio.
È la stessa lotta che attraversa ogni popolo ferito, quando la violenza diventa l’unico linguaggio possibile e la pace appare come un tradimento.
Gli attori esterni e il fragile equilibrio regionale
Dietro la crisi di Hamas si cela una partita più ampia: quella del Medio Oriente post-2024, un sistema in bilico tra nuove alleanze e vecchi rancori.
L’Iran, pur sostenendo Hamas, si trova a dover bilanciare il proprio interventismo con la necessità di evitare un conflitto aperto con Israele.
Il Qatar, mediatore e sponsor politico, teme che la frammentazione del movimento ne riduca l’influenza diplomatica.
L’Egitto, da sempre guardiano del confine di Rafah, oscilla tra il ruolo di mediatore e quello di carceriere.
Intanto, Israele stesso vive un dilemma speculare: come garantire la propria sicurezza senza alimentare un ciclo infinito di vendetta?
Ogni vittoria militare rischia di trasformarsi in una sconfitta morale e politica, perché la distruzione di Gaza genera nuovi nemici e radicalizza nuove generazioni.
La pace, in questo contesto, appare come un equilibrio instabile tra due stanchezze: quella di chi ha troppo combattuto e quella di chi non sa più perché combatte.
Verso un nuovo paradigma
Se il Medio Oriente ha una possibilità di rinascita, essa passa da una rivoluzione interiore.
Non basta cambiare i confini, i governi o le alleanze: serve cambiare la mentalità.
Il futuro della Palestina non dipenderà solo dalla fine di Hamas o dalla forza di Israele, ma dalla capacità di trasformare il dolore in memoria, la rabbia in politica, la resistenza in dialogo.
Le nuove generazioni palestinesi e israeliane, cresciute in un mondo iperconnesso, hanno un linguaggio comune: quello della sopravvivenza emotiva.
Molti di loro si scrivono, si ascoltano, si incontrano online, oltre i muri fisici e ideologici.
È in questi piccoli gesti che nasce il seme di un futuro diverso, lontano dalle retoriche ufficiali.
La storia insegna che ogni conflitto finisce non quando uno dei due vince, ma quando entrambi comprendono di aver perso troppo.
E allora forse Gaza, un giorno, potrà smettere di essere simbolo di distruzione e diventare metafora di rinascita, come la fenice delle leggende arabe: bruciata, ma mai sconfitta.
Epilogo: la guerra con sé stessi
“Il nemico è spesso dentro di noi, non di fronte a noi.” — Mahatma Gandhi
Hamas non è solo un movimento politico o militare: è uno specchio dell’anima palestinese, con le sue contraddizioni e le sue ferite.
E come ogni identità divisa, deve affrontare la scelta più difficile: quella di rinunciare al proprio mito per salvare la propria gente.
La vera guerra, oggi, non è tra Gaza e Israele, né tra Islam e Occidente.
È tra la paura e la speranza, tra l’orgoglio e la compassione, tra il ricordo del sangue e il desiderio di pace.
Quando un popolo impara a riconoscere il proprio nemico interiore, la strada verso la libertà è già iniziata.
E forse, allora, si potrà dire che Gaza ha davvero combattuto — e vinto — la guerra con sé stessa.