di Sergio Restelli
Dopo mesi di assedio e distruzione, Gaza torna al centro della diplomazia mondiale. Ma questa volta non sono l’ONU o l’Europa a muovere le leve, bensì Donald Trump, tornato alla Casa Bianca e deciso a imprimere il proprio marchio su uno dei conflitti più complessi del nostro tempo.
Il presidente americano ha proposto un piano di cessate il fuoco e ritiro progressivo delle truppe israeliane, pensato come preludio a un accordo di pace “duraturo”. Trump si presenta come arbitro della crisi, alternando minacce e promesse: ha ammonito Hamas a non ritardare e ha invitato Israele ad accettare la sua “linea di ritiro iniziale”.
Il progetto, ad alto rischio politico, prevede quattro punti: cessate il fuoco immediato dopo la conferma di Hamas; scambio di ostaggi e prigionieri; ritiro graduale delle forze israeliane da parte della Striscia; garanzie sulla smilitarizzazione di Gaza.
Una pace costruita più sulla pressione che sul consenso. In Israele, Netanyahu appare sospeso tra l’obbedienza all’alleato americano e il controllo interno. Ha espresso fiducia nel rilascio degli ostaggi, ma insiste nel mantenere le IDF nella Striscia, almeno finché non sarà garantita la sicurezza.
Sì al piano di Washington, ma senza rinunciare al controllo militare.Sul fronte interno cresce la tensione: oltre 120 mila persone a Tel Aviv chiedono il ritorno immediato degli ostaggi, mentre il governo è diviso tra aperture diplomatiche e timori di vulnerabilità.
Per Hamas, la sfida si gioca al tavolo del Cairo, dove l’Egitto tenta ancora una volta di mediare. Accettare il piano significherebbe riconoscere un equilibrio imposto da Stati Uniti e Israele; rifiutarlo potrebbe far riprendere i bombardamenti, come dimostrano i recenti raid che hanno ucciso 57 persone in un solo giorno.
Il Cairo, da parte sua, cerca di bilanciare interessi regionali e pressioni internazionali, mantenendo un ruolo chiave di mediatore. La sua posizione, formalmente neutrale, è però intrisa di calcoli geopolitici.
La tregua che si delinea ha un sapore precario. Trump punta a chiudere “l’affare”, Netanyahu cerca di preservare la propria leadership e Hamas tenta di sopravvivere politicamente. Intanto, i civili di Gaza restano intrappolati in una spirale di promesse e distruzioni.
Molti analisti vedono in questo possibile accordo non una pace vera, ma una pausa tattica: Israele per riorganizzarsi, Hamas per ricostruire la propria influenza. La domanda resta aperta: sarà l’inizio di una nuova fase di stabilità, o solo l’ennesima tregua destinata a spezzarsi sotto il peso della storia?