testata3

OPINIONI

PACE LEGALE E PACE SOCIOLOGICA

PACE LEGALE E PACE SOCIOLOGICA

di Antonio Bettelli

Rovistando tra alcuni appunti, mi sono imbattuto in una frase di Nicholas John Spykman, studioso americano di origini olandesi e docente all’università di YALE nella prima metà del secolo scorso, politologo ed estensore della teoria del “Rimland”, una visione geopolitica che, complementarmente a quella dell’inglese Alford Mackinder alla fine del 1800 sul concetto dell’Heartland euroasiatico”, influenzò la politica interventista americana nel secondo conflitto mondiale e negli avvenimenti che a noi sono ben noti con la definizione di “Guerra Fredda”.



La frase che qui propongo, alla luce della delicatezza della situazione mediorientale e dopo l’iniziale successo dell’accordo di pace elaborato dall’amministrazione statunitense, è la seguente: “la pace può essere la fine di un conflitto in senso legale, ma a che lo sia in senso sociologico un lungo processo di conciliazione è richiesto”.

Che di pace legale si tratti credo che sia ancora da dimostrare, ma sicuramente non è pace sociologica, e non lo è neppure embrionalmente. È auspicabile che le due caratteristiche di legalità e di sostanzialità sociologica siano in qualche modo, sullo slancio del nuovo inizio, definite, perseguite e raggiunte.

Al tavolo dei negoziati armistiziali di Sharm el Sheik, platea mediatica di portata planetaria, sedevano molti capi di stato (spiccavano in particolare quelli dei paesi musulmani a prevalenza sunnita), ma non erano presenti i rappresentanti delle parti in conflitto, vale a dire israeliani e palestinesi, mentre la componente più tradizionale della dimensione islamica, vale a dire l’emisfero sciita, era completamente assente, forse anch’essa, alla stessa stregua di Hamas, imputata in contumacia nel procedimento di assegnazione degli obblighi di resa allo sconfitto.

La legalità, ammesso che di questo si tratti, è, nella fattispecie, subordinata al principio della forza (dovrebbe essere il contrario). Quest’ultimo, utilizzato come regola ordinatrice, ha in genere immediata efficacia per due motivi: evidenza e semplicità.
Il più forte ha ragione! Non servono molte argomentazioni o verifiche, non occorre analizzare le cause che hanno spinto le parti al conflitto e metterle a confronto, non è necessario effettuare una ricerca antropologica, sociologica, psicologica per mediare una soluzione che assicuri a tutti, anche alla parte soccombente, un’idea di futuro. Insomma, una pace che si basi sul principio di forza è come una sorta di giustizia capitale, dove nel tagliare la testa al condannato si vorrebbe anche dissiparne l’anima. Temo che non sia così, tuttavia.

La giustizia, diversamente dalla forza, esige un percorso complesso, tortuoso, estremamente difficile: richiede tempo, analisi, approfondimento, capacità di lettura oltre le apparenze, desiderio di conoscenza e di verità. Il principio di giustizia, forse irrealizzabile nella sua forma completa, può, se applicato, non solo contribuire alla certificazione della legalità internazionale, ma soprattutto gettare le fondamenta per una relazione sociologica tra gli Stati e tra i Popoli che sia foriera di riconciliazione, di stabilità e in fine di pace.

Che l’accordo dell’amministrazione statunitense sia pace legale, secondo un provvedimento di legalità universale che “in terra” può unicamente essere emanato dell’organo collegiale di maggior rappresentatività planetaria, cioè dalla tanto vituperata Organizzazione delle Nazioni Unite, lo dubito. Si tratta, tuttavia, ed è innegabile allo stato dei fatti, di una pace accettata in subordine al principio della forza. E questa è sicuramente una buona notizia come da tutti evidenziato.
Per la pace sociologica, invece, fosse anche solo in nuce, cioè in forma prodromica di un processo di riconciliazione, credo e temo che manchino ancora troppi elementi. L’embrione della riconciliazione non può essere inoculato con la forza.

Leggendo sempre Spykman, trovo tuttavia un’altra affermazione che mi costringe a ripercorrere in parte le mie conclusioni. Cito: “nobody has invented yet a means of influencing human behavior which is not a variation of the method of persuasion, barter or force” (nessuno ha ancora invitato un mezzo per influenzare il comportamento umano che non sia una variazione del metodo di persuasione, baratto o forza).

Insomma, quanto successo dal 7 ottobre 2023, forse ancora da molto prima se si considerano i numerosi conflitti tra mondo arabo e Israele nei decenni trascorsi dal maggio del 1948, è parte inevitabile e dolorosa di un processo che per diventare di autentica riconciliazione non può non rinunciare al metodo della persuasione, del baratto o della forza. In questo caso, nella guerra di Gaza, la forza è andata in campo senza mezze misure: prima quella delle armi e della distruzione, sia delle vite umane sia della materialità dei luoghi e degli oggetti, poi quella del potente protettore di Israele che con piglio ascrivibile in apparenza alla imprevedibilità, alla bizzarria e alla follia ha messo tutti alle corde: attaccato e attaccante, vincitore e soccombente, non per ultimo anche la folta pletora di astanti desiderosi di trovare un proprio ruolo nel divenire ineludibile delle cose e dei tempi.

Spero che sia realmente un nuovo inizio; che non sia solo forza, neppure solo baratto, ma che sia anche un po' persuasione. Spero che si possano trovare quelle variazioni metodologiche a che la pace sia costruita per riconciliazione, poi raggiunta e in fine preservata. Sperarlo equivale a continuare ad avere fiducia nell’umanità.
Temo, per contro, gli effetti del carico di odio aggravato dalla strage del 7 ottobre e della conseguente barbarie subita dal popolo di Gaza. Temo i traumi psicologici dei bambini, futuri cittadini maturi e senzienti di quella terra. Temo l’isolamento dell’emisfero musulmano sciita, la sua marginalizzazione, poiché aver obnubilato la componente più tradizionale dell’islam, solidamente ancorata alla millenaria cultura persiana, negandone un ruolo nel processo, potrebbe essere una motivazione profonda per giustificare future rivalse. Temo che il principio della forza possa essere stato motivato da biechi interessi di parte: affari, finanza, sopravvivenza politica.

Temo molto; forse temo molto più di quanto io possa sperare.

RIFERIMENTI

ngn logo2

Testata totalmente indipendente, di proprietà dell’associazione Libera Stampa e Libera Comunicazione

Sostienici per dare una libera informazione

Donazione con Bonifico Bancario

TAGS POPOLARI

Info Nessun tag trovato.
Image
Image
Image
Image
Image
Image

Ricerca