A Gaza e in Italia: guerre interne, parole che dividono
“La guerra è la più grande tragedia dell’uomo, ma anche la più grande rivelazione della sua natura.” — William Faulkner
Nel cuore della guerra si nasconde una verità più profonda: non quella che si misura nei fronti o nelle battaglie, ma quella che lacera dall’interno, tra fratelli, tra parole, tra memorie.
Oggi, mentre Gaza brucia di nuovo tra le rivalità delle fazioni di Hamas, in Italia una guerra diversa ma altrettanto inquietante si consuma nel linguaggio — nelle dichiarazioni di una ministra che, parlando del Giorno della Memoria, ha scatenato una bufera morale e politica.
Due mondi lontani, due incendi diversi, ma un solo filo rosso li unisce: la frammentazione.
Là si frantuma l’unità di un popolo sotto le bombe; qui si incrina il senso condiviso della storia e della memoria. Entrambi sono segni di una stessa malattia: la perdita della coesione e della verità comune.
E in Italia, al centro di tutto, emerge una sfiducia totale nei confronti della politica da parte dei cittadini, che non credono più nelle promesse, nelle istituzioni, nei simboli.
Gaza: la guerra dentro la guerra
A Gaza, la guerra non è più soltanto quella tra Israele e Hamas. È una guerra interna, silenziosa ma crescente, che divide lo stesso movimento che da anni governa la Striscia. Le ultime settimane hanno visto scontri violenti tra diverse fazioni di Hamas e i potenti clan locali, come i Dughmush, noti per i loro traffici di armi e la loro autonomia militare.
Strade insanguinate, case distrutte, famiglie costrette a fuggire non per un bombardamento israeliano, ma per i combattimenti tra palestinesi.
Questa nuova guerra civile non è nata all’improvviso. Da tempo Hamas, logorata dalla guerra esterna e dall’isolamento internazionale, mostra segni di collasso interno. Il suo comando centrale non riesce più a controllare le milizie locali, alcune delle quali agiscono come piccoli eserciti autonomi. In un contesto in cui il potere politico e quello militare si sovrappongono, la catena di comando si spezza e la disciplina si dissolve.
Molti analisti parlano di una “guerra dentro la guerra”, una lotta intestina per il controllo delle risorse, dei tunnel, dei traffici e persino della narrazione politica. Gaza si sta trasformando in un mosaico di micro-feudi, dove ogni comandante difende il proprio territorio e la propria influenza. Il conflitto con Israele diventa così solo lo sfondo di una crisi più ampia: quella di un’autorità che non riesce più a governare se stessa.
Non è la prima volta. Già nel 2007, lo scontro con Fatah aveva diviso per sempre la leadership palestinese, creando due entità parallele: l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza. Ma oggi la frattura si approfondisce: non è più tra due partiti, ma dentro lo stesso corpo politico.
Alcuni dirigenti di Hamas guardano all’Iran e alle sue strategie regionali, altri cercano appoggi in Turchia o nel Qatar, altri ancora si affidano ai clan locali.
Il risultato è una paralisi totale. Ora che i bombardamenti israeliani si sono attenuati, lasciando spazio a un silenzio carico di macerie e sospetto, le fazioni si accusano a vicenda di tradimento. L’idea di una resistenza unita si dissolve nel sospetto. La popolazione, stremata, non sa più a chi credere.
Il conflitto esterno è diventato una scusa per coprire il collasso interno. Gaza, che un tempo era simbolo di identità e di resistenza, rischia di diventare una città fantasma: una terra in cui nessuno comanda e tutti combattono.
E quando la guerra non è più contro un nemico ma contro se stessi, non resta più nulla da difendere, perché tutto — case, ideali, fratellanze — si è già sbriciolato nel cuore della notte.
Le parole che feriscono: l’Italia e la memoria contesa
Mentre Gaza combatte con le armi, l’Italia combatte con le parole.
La polemica esplosa attorno alle dichiarazioni della ministra Eugenia Maria Roccella, titolare del Ministero della Famiglia e delle Pari Opportunità, ha riportato alla luce un tema che sembrava saldo ma non lo è mai stato: la memoria.
Durante un convegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Roccella ha pronunciato parole che hanno risuonato come una frattura morale:
«Tutte le gite scolastiche ad Auschwitz, cosa sono state? Sono state gite? A che cosa sono servite? Sono servite a dirci che l’antisemitismo era una cosa che riguardava un tempo collocato nella storia, e in una precisa area: il fascismo».
E ha aggiunto:
«Quelle gite erano un modo per dire che bastava essere antifascisti per non essere antisemiti».
In poche frasi, la ministra ha toccato la nervatura più sensibile della memoria collettiva: l’idea che ricordare la Shoah sia, in fondo, un esercizio politico, non morale; un atto identitario, non universale.
Le reazioni sono state immediate e durissime. Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, ha risposto:
«Stento a credere che una ministra della Repubblica possa definire ‘gite’ i viaggi nei campi di sterminio. La memoria storica fa male solo a chi ha scheletri nell’armadio».
Le opposizioni hanno chiesto le scuse immediate del governo, denunciando una “manipolazione della memoria” e una “deriva revisionista”.
Gli storici hanno sottolineato il rischio di ridurre l’educazione alla memoria a un sospetto ideologico, mentre le comunità ebraiche hanno ricordato che i viaggi nei luoghi dell’Olocausto non servono a insegnare l’antifascismo, ma a preservare l’umanità.
Travolta dalle critiche, Roccella ha poi cercato di chiarire:
«Non ho mai detto che i viaggi della memoria siano inutili. Ho solo affermato che non bastano se non si comprende che l’antisemitismo è ancora presente nel nostro tessuto culturale».
Ma il danno era fatto. Quelle parole — “gite ad Auschwitz” — avevano già colpito il cuore della sensibilità pubblica.
Nel tentativo di ampliare il discorso, la ministra ha accusato le università italiane di essere “tra i peggiori luoghi di non-riflessione” riguardo al conflitto israelo-palestinese e al dilagare dell’odio. Così, nel tentativo di denunciare un silenzio, ha generato un clamore.
Eppure, questa polemica non è solo un incidente politico. È il sintomo di una malattia del linguaggio. Le parole che dovrebbero unire, curare, chiarire, vengono usate per provocare, dividere, confondere. La memoria, invece di essere il fondamento dell’identità civile, diventa un campo di battaglia.
Le due fratture: Gaza e l’Italia
Che cosa lega Gaza e Roma, i razzi e le parole, i clan armati e i ministri? A un primo sguardo, nulla. Ma a uno sguardo più profondo, tutto.
In entrambi i casi, la società si frantuma dall’interno, e il conflitto diventa specchio della propria debolezza. A Gaza, le fazioni si sparano per il controllo del territorio. In Italia, ci si accusa per il controllo del significato.
Là si combatte per sopravvivere, qui per interpretare. Eppure, il meccanismo è lo stesso: la perdita della fiducia reciproca.
Quando una comunità non crede più alla parola dell’altro, tutto può diventare guerra. In Medio Oriente la violenza si manifesta con le armi; in Europa, con le dichiarazioni. Ma in entrambi i casi, il risultato è lo stesso: un vuoto che si allarga, una solitudine collettiva che cresce.
Là, l’unità palestinese si disgrega sotto il peso dei clan e dei leader; qui, l’unità morale si sgretola sotto il peso della retorica e della politica.
Gaza brucia di fuoco, l’Italia di polemiche. Entrambe mostrano come, quando il linguaggio perde la sua sacralità, ogni parola può diventare una bomba.
L’ombra del linguaggio e il destino delle società
In tempi fragili come questi, il linguaggio è la prima vittima e la prima arma. A Gaza, la parola “resistenza” può significare libertà o potere, sacrificio o dominio.
In Italia, la parola “memoria” può essere un atto di pietà o uno strumento di lotta ideologica. Tutto dipende da chi la pronuncia, e con quale intenzione.
Davvero, la lingua uccide come — o anche più — della spada. Il linguaggio è la forma più sottile di guerra civile. Si combatte con il tono, con le omissioni, con i silenzi.
Quando le parole non cercano più la verità ma la vittoria, allora nessuno vince davvero.
E forse la vera tragedia del nostro tempo è che la guerra delle armi e quella delle parole si alimentano a vicenda. Roccella, nel tentativo di proporre una riflessione, ha invece svelato un cortocircuito: in una società polarizzata, anche la memoria può diventare un campo minato.
Ma la memoria, come la pace, non appartiene a nessuno. È un bene fragile, comune, che si difende solo con la sincerità e con l’ascolto.
L’eco delle rovine
Da Gaza a Roma, il mondo sembra attraversato dallo stesso destino: la dissoluzione della fiducia. Nelle macerie di Gaza, tra i corpi e le voci dei sopravvissuti, la guerra civile è una realtà che consuma ogni giorno un pezzo di futuro. In Italia, tra le parole di un ministro e le risposte indignate di una sopravvissuta, la guerra civile è simbolica, ma non meno reale.
Le recenti rilevazioni confermano la sfiducia totale dei cittadini verso la politica: solo circa il 21% degli italiani ripone fiducia nei partiti, mentre la fiducia nell’esecutivo e nel Parlamento è in caduta libera.
Entrambe le crisi ci insegnano che la pace non è solo la fine del rumore delle armi, ma anche la fine del rumore delle parole vuote.
La pace nasce dal rispetto dell’altro, dall’ascolto, dalla memoria condivisa.
E forse è proprio questa la lezione più difficile: capire che la guerra comincia sempre nel linguaggio, prima che nelle strade; nella mente, prima che nei campi di battaglia.
Gaza e l’Italia, così diverse, ci mostrano due facce dello stesso abisso: la fragilità dell’essere umano quando smette di ricordare che anche il nemico, anche l’avversario, anche chi sbaglia — è parte della stessa, unica storia.