di Filippo Maria Leonardi
«Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta / una lonza leggiera e presta molto / che di pel macolato era coverta».
Proprio all'inizio della Divina Commedia, nel primo Canto dell'Inferno, il sommo poeta Dante Alighieri descrive il suo smarrimento all'interno della “selva oscura” e il suo incontro con tre animali feroci: la lonza, il leone e la lupa. Secondo l'interpretazione allegorica, questi animali rappresentano rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia.
Tuttavia, se non vi sono dubbi circa l'identificazione del leone e della lupa, resta da chiarire quale animale fosse la cosiddetta “lonza”, la cui denominazione è abbastanza rara e inusuale. Essendo descritta come un felino dal pelo maculato, potrebbe trattarsi di un leopardo o di una lince. Senonché il termine lonza, nel dialetto toscano dell'epoca, così come ancora oggi, indicava un particolare taglio di carne, ricavato dai lombi del maiale, molto apprezzato come arrosto o come salume, in entrambi i casi legato con una cordicella per mantenere la forma durante la cottura o la stagionatura. Poteva Dante ignorare questo significato?
Non ce ne vogliano gli illustri esegeti danteschi se osiamo accostare una nobile allegoria con una volgare pietanza, ma per quanto divina, si tratta sempre di una commedia, ed è nell'indole dell'autore accostare in modo sublime il sacro al profano. In realtà è veramente facile dimostrare che Dante conosceva molto bene il significato gastronomico del termine lonza, poiché lui stesso ce lo scodella in tavola nel terzo sonetto della tenzone con Forese Donati: «Ben ti faranno il nodo Salamone / Bicci novello, e’ petti de le starne, / ma peggio fia la lonza del castrone, / ché ‘l cuoio farà vendetta de la carne».
Questa tenzone tra i due contendenti, precede sicuramente l'anno 1296, data della morte di Forese, per cui testimonia l'uso da parte di Dante della parola lonza, nel significato di «lombata», ben prima della scrittura della Divina Commedia. Al contrario, nonostante l'unanime interpretazione degli esperti, è difficile dimostrare che il termine lonza sia entrato in uso in Italia, come nome di animale, prima che fosse usato dallo stesso Dante.
Secondo il Tesoro della lingua Italiana delle Origini, la prima attestazione del termine lonza nella lingua italiana per indicare una sorta animale agile e feroce, simile al leopardo, risale al 1309, quando compare in un sonetto del poeta Folgòre da San Gimignano, anch'esso toscano. La data e il luogo sono quanto mai sospetti, poiché secondo i critici Dante cominciò a scrivere la Commedia almeno dal 1306. Altrettanto sospetto è l'inserimento del termine lonza nell'espressione «leggero più che lonza o lïopardo», che pare mutuata dal verso dantesco: «una lonza leggiera e presta molto».
In realtà già dal Duecento, proprio nell'area toscana, era stato introdotto un termine per indicare la “lince”, ma fino all'epoca di Dante la terminologia non si era ancora stabilizzata, oscillando tra le forme alternative loncia, lonça, lonze, leuncia, leonza, etc. che rappresentano diversi tentativi di adattamento del termine francese lonce (moderno once), a sua volta derivato dal greco lynx. Il Bestiario toscano (XIII sec.) riporta la seguente definizione: «Loncia è animale crudele e fiera, e nasce de coniungimento carnale de leone con lonça o vero de leopardo con leonissa», mentre Restoro d'Arezzo (1282) riferisce dell'influenza astrologica secondo la quale: «lo segno del leone, ch'è de le parti e de le membra nobilissime del cielo, facia el leone e la terra e tutti li animali simili a sé, come el lupardo e la leonza e li animali audaci che vivono de ratto simili a sé». Pertanto, considerando che la forma specifica lonza compare soltanto dopo il 1300, siamo indotti a sospettare che tale termine sia una invenzione dello stesso Dante Alighieri, con intenzionale assimilazione fonetica al termine già esistente in Italia e nel dialetto toscano, che indicava la lombata. Ma come giustificare questa assimilazione?
La correlazione tra la lince e la lombata ci è suggerita dallo stesso Dante nei versi della succitata tenzone con Forese Donati. Nell'invettiva poetica, Dante accusa Forese di mangiare a sbafo senza pagare, cosicché il «cuoio farà vendetta della carne», con riferimento ai debiti scritti sulla pergamena, fatta con pelle di animale. Tuttavia la «carne» può essere intesa anche con riferimento al «piacere carnale» ovvero con gli appetiti sensuali, la gola, la libidine e in generale la lussuria. Si intravede dunque la connessione simbolica tra la lonza intesa come animale lussurioso, e la lonza intesa come lombata, poiché tradizionalmente i lombi erano considerati la sede della lussuria. Da notare inoltre l'espressione “lonza del castrone” che evidenzia una contrapposizione simbolica tra la lonza di maiale e il castrone d'agnello, cioè tra un animale notoriamente lussurioso ed un altro mite ed impotente. Forse Dante volle dire che in Forese la lussuria superò la codardia. Questi giochi di parole, tra il senso colto e il volgare, evidentemente, erano tipici della poesia satirica toscana del Medioevo, come si rileva anche in Ser Pietro de' Faitinelli, coevo di Dante Alighieri: «Sì mi castrò, per ch’io non sia castrone, / Castruccio quando Lucca fu tradita, / che de’ mei lombi è la lussuria uscita / e vivo en castità per sua cagione».
La correlazione simbolica tra i lombi e la lussuria è ampliamente attestata nell'antichità. Nella Bibbia vi sono diversi passi in cui i lombi rappresentano la lussuria e la forza generativa, sia nell'Antico Testamento che nel Nuovo. Per avere un'ampia panoramica sulla correlazione tradizionale dei lombi con la lussuria, si può leggere il curioso trattato di Johann Heinrich Meibom (Meibomius) dal titolo De flagrorum usu in re Veneria & lumborum renumque ufficio, pubblicato a Leida nel 1693 che riporta citazioni delle Sacre Scritture, di Basilio, Origene, San Gerolamo, Orazio, Ezio, Arnobio, Persio, Giovenale, Isidoro, Tertulliano, Esichio, Ausonio, Ippocrate, Aristotele, Galeno, Avicenna, Rhazes e medici vari, concludendo che: «non possiamo quindi ritenere come nuova e sospetta un’opinione accolta e sostenuta dal consenso unanime di tutta l’antichità e dalla testimonianza delle Sacre Scritture e cioè che i lombi, le parti adiacenti e i reni siano gli strumenti della capacità generativa». Origene dice chiaramente: «il ricettacolo della semenza umana si trova nelle reni o lombi, da cui prende il nome la libidine, che è il genere di peccato che ne deriva» mentre Isidoro sostiene il contrario, cioè che le reni lumbi ob libidinis lasciviam dicti, cioè «sono chiamate lombi a causa della indole libidinosa». Il simbolismo tradizionale dei lombi come sede della lussuria riecheggia anche nella moderna letteratura erotica, per esempio in Nabokov che così declama: «Lolita, light of my life, fire of my loins» cioè appunto «fuoco dei miei lombi».
Se dunque i lombi rappresentano la lussuria, l'azione di cingersi i fianchi rappresenta simbolicamente la temperanza e la castità nel senso di contenimento della lussuria e di chiusura delle vesti che devono coprire il corpo. Così è da intendere l'invito di Giobbe: Accinge sicut vir lumbos tuos «cingi i tuoi fianchi come un vero uomo». Anche la legatura dei lombi, trova una analogia con l'arte culinaria. L'arrosto di maiale, prevede usualmente la legatura della lombata con una cordicella per mantenere la forma durante la cottura. Così pure quando è lavorata a salume, la lonza è legata con una cordicella per garantire una perfetta maturazione e conservazione allo stesso modo del salame. A questo allude Dante Alighieri, nella tenzone con Forese Donati, quando menziona il nodo di Salomone storpiandone il nome in Salamone, cioè “grande salame”. Ma l'analogia del “legare la lonza” ricorre anche nella Commedia: «Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta».
La cordicella avvolta intorno ai fianchi è simbolo di temperanza. Presso l'ordine francescano la cordicella porta tre nodi, cosiddetti del Cappuccino, che rappresentano i tre voti di povertà, obbedienza e castità, che sono l'esatto contrario di cupidigia, superbia e lussuria, i tre vizi rappresentati rispettivamente dalla lupa, dal leone e dalla lonza nella Divina Commedia. Questi tre animali, che in Dante rappresentano simbolicamente i tre vizi principali, richiamano i tre animali menzionati dal profeta Geremia con riferimento ai peccati degli Israeliti: «Per questo li azzanna il leone della foresta, / il lupo delle steppe ne fa scempio, / il leopardo sta in agguato vicino alle loro città / quanti ne escono saranno sbranati; / perché si sono moltiplicati i loro peccati, / sono aumentate le loro ribellioni». Dante utilizza come simboli le tre medesime bestie, sostituendo solamente il leopardo con la lonza, ma si tratta comunque di un animale dal pelo maculato. Infatti la macchia rappresenta simbolicamente l'impurità, la lussuria, la colpa, il peccato, mentre al contrario si dice “immacolata” una cosa pura, casta, senza colpa né peccato.
Dobbiamo altresì notare che nella Divina Commedia questi tre animali hanno tutti il nome che inizia con la lettera L. Può essere soltanto un caso? Per altri autori non avremmo avuto di che sospettare, ma Dante Alighieri, che fu poeta, linguista ed anche esoterista, ci ha lasciato vari esempi di giochi verbali e letterari. Proprio riflettendo sul carattere imitativo del linguaggio, il celebre filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz, notò l'incongruenza fonosimbolica nei nomi di certi animali feroci come il leone, il lupo e la lince. Infatti, tutti questi nomi iniziano con la L sebbene il suono dolce e lieve di questa lettera mal si adatta ad esprimere l'asprezza e la violenza: «c'è qualcosa di naturale nell'origine delle parole che evidenzia un rapporto tra le cose e i suoni e i movimenti dell'organo vocale; ed è quindi per questo motivo che la lettera L, aggiunta ad altri nomi, ne fa il diminutivo presso i Latini e gli Alto-Tedeschi. Tuttavia non si può affatto pretendere che questa motivazione si possa trovare ovunque, poiché il leone, la lince e il lupo, sono tutto fuorché dolci».
La spiegazione di tale dissonanza risale ai tempi remoti e si perde nel mistero della lingua dell’Antico Egitto. Infatti gli scribi Egiziani usavano un geroglifico che rappresentava un leone sdraiato per esprimere, in modo onomatopeutico, il ruggito del feroce animale, RW. Ma in epoca ellenistica lo usarono per trascrivere la lettera greca Lambda nei nomi di Tolomeo e Cleopatra, come si può constatare nella famosa Stele di Rosetta. In pratica, non avendo nella loro lingua il suono L, gli Egiziani lo rendevano con RW, proprio come fanno anche i Giapponesi, che invece di base-ball pronunciano besu-boru. Poi, come sappiamo dallo studio del copto, anche in Egitto si cominciò ad usare il fonema L in vari dialetti. Può essere capitato, in questa transizione fonetica, che il leone abbia perso il suo ruggito? Non lo sappiamo con certezza, ma di certo il lupo non ha perso il vizio, e la lonza continua a sconcertare gli studenti liceali che incontrano questo strano animale nella foresta oscura dell’allegoria.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- III sec. : Origene, Explanatio super Psalmum XXXVII, Homilia I - Origenis Opera omnia, Haude e Spener, Berlino, 1841, Vol. 12, p. 244.
- VI-VII sec. : Isidori Hispaniensis Episcopi, Etymologiae sive Origines, Liber XI, I. De homine et partibus eius - Isidoro di Siviglia, Etimologie e Origini, UTET, Novara, 2013, p. 390.
- XIII sec. : Bestiario toscano - Milton Stahl Garver e Kenneth McKenzie, Il Bestiario toscano secondo la lezione dei codici di Parigi e di Roma, «Studi romanzi», VIII, 1912, pp. 1-100 [testo pp. 17-94].
- 1282 : Restoro d'Arezzo, La composizione del mondo - La prosa del Duecento, a cura di Cesare Segre e Mario Marti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 981-1040 [testo pp. 984-1040].
- XIV sec. : Ser Pietro de' Faitinelli detto Mugnone - Scrittori d'Italia: Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, a cura di Aldo Francesco Massera, Laterza, Bari, 1920, Vol. I, XVIII, 13, p. 189.
- 1596 : Dante con l'espositioni di Christoforo Landino et d'Alessandro Vellutello, Fratelli Sessa, Venezia.
- 1693 : Ioan. Henrici Meibomi, De flagrorum usu in re Veneria & lumborum renumque officio, Ex Officina Elseviriana, Academ. Jur. Typograph., Lugd. Batavorum.
- 1705 : G. W. von Leibniz, Nouveaux Essais sur l'entendement humain, Lib. III, Cap. II - Esprit de Leibnitz ou recueil des pensèes choisies, Bruyset, Lyon, 1772