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L'ARTICOLO DEL SABATO

DANTE ALLA RICERCA DEL VERO SÈ

DANTE ALLA RICERCA DEL VERO SÈ

La “Divina Commedia”, come in molti hanno detto e scritto, è chiaramente un viaggio iniziatico dalla tenebra alla luce. Il racconto di un’opera di trasmutazione di tipo alchemico: dalla nigredo all’albedo e da questa alla rubedo. Un viaggio alla ricerca del vero “sé”.

A ben vedere, è Dante stesso a suggerirlo, almeno in tre modi:

lo suggerisce attraverso la scelta del nome dato all’opera, la “Commedia” (l’aggettivo “Divina” fu aggiunto a posteriori da Boccaccio). Perché qualificare commedia un’opera che, comunque la si legga, è tutto fuorché un’opera buffa? A meno di non volerne celare la vera portata, ovviamente. In un’epoca in cui i roghi venivano accesi con una certa facilità, l’autore sembra mettere le mani avanti invitando a non dare troppa importanza ai suoi versi, una semplice commedia per l’appunto, espressione del suo desiderio di suscitare nel lettore un sorriso piuttosto che di trasmettere scomode verità. Una breve annotazione su questo: si dice che Dante fosse presente a Parigi nel 1314 quando venne messo al rogo Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro Templare. Qualcuno vede un riferimento a ciò anche nei versi 16, 17 e 18 del canto XXVII del Purgatorio: “In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi già veduti accesi”. Il vivido ricordo della visione di un corpo “acceso” potrebbe avere a che fare con il rogo del Gran Maestro.  

Lo suggerisce attraverso il linguaggio simbolico e il ricorso alla numerologia, appannaggio – a certi livelli – di un vero iniziato: l’intera Commedia è costruita sul numero tre e i suoi multipli, che ricorre in modo quasi ossessivo. I canti della Commedia sono un gioco di specchi in cui non un verso è lasciato al caso, segno di una intelligenza finissima e di una conoscenza di tipo esoterico.

Lo suggerisce, ancora, attraverso il reiterato invito ad andare oltre il significato letterale delle parole. Concetto espresso chiaramente nel convivio dove spiega che vi sono quattro chiavi di lettura: “le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi” e richiamato anche in due punti precisi della Commedia. Nel canto IX, versi 61-90 dell’Inferno Dante ci invita a guardare: “sotto ’l velame de li versi strani” e nel canto VIII, versi 19-21 del Purgatorio ci invita ad aguzzare “ben li occhi al vero, che 'l velo è ora ben tanto sottile, certo che 'l trapassar dentro è leggero”. Dal “velame” al “velo” sottile: Dante ci insegna a non fermarci all’apparenza ma anche che la conquista della verità, e della conoscenza, è progressiva.

Fatta questa lunga premessa, prima di iniziare il viaggio, suggerisco al lettore della Commedia di porsi tre (!) domande:

Quando ha inizio il viaggio? Perché ha inizio? Dove ha inizio?

Dante intraprende il viaggio “nel bel mezzo del cammin di nostra vita” allorchè “la diritta via era smarrita”. Sembra qui evidente il riferimento a quel momento particolare che a molti capita di vivere. Se ne parla spesso con un sorriso, definendolo “crisi di mezza età”. In realtà è un momento cruciale di passaggio in cui, avendo percorso un bel tratto di strada (“nel bel mezzo del cammin di nostra vita”) e avendo acquistato consapevolezza del fatto che il tempo che ci resta da trascorrere su questo piano di esistenza non è infinito, siamo portati a porci delle domande, a fare un primo bilancio della nostra vita. E spesso non è piacevole. Ci si rende conto che ciò per cui abbiamo lottato e impegnato la gran parte del nostro tempo non è poi così importante. E’ il momento della perdita di senso e dello smarrimento. Esattamente la condizione in cui si trova Dante. Lo esplicita bene Pascoli attraverso la figura di Ulisse, nella poesia “l’ultimo viaggio”. A differenza dell’Ulisse di Dante, sicuro di sé al punto di non riconoscere l’esistenza del limite, l’Ulisse di Pascoli è insicuro avendo perso tutti i suoi riferimenti. Nel viaggio a ritroso che compie dopo il suo ritorno a Itaca (forse una visione retrospettiva della propria vita) Ulisse non trova più i ciclopi, né la maga Circe, né le sirene ammaliatrici, trasformate in due scogli inanimati cui rivolge un accorato appello, espressione del proprio smarrimento: “Solo mi resta un attimo. Vi prego. Ditemi almeno chi son io … E tra i due scogli si spezzò la nave”.

Crisi intesa dunque come “smarrimento” (così come smarrito è Dante all’inizio del viaggio) ma da intendersi anche nell’accezione letterale del termine (dal greco “krinis”) ossia come scelta, giudizio (“krino” = distinguere, separare). Uscire dalla crisi significa prendere una decisione assumendosene la responsabilità. E la decisione di Dante è quella scendere negli inferi, cioè nell’inferior, nel proprio inconscio, per incontrare i propri demoni. Il poeta sembra dirci che solo immergendoci completamente nei nostri dolori e nelle nostre paure, e dando un nome ai nostri demoni guardandoli in faccia, possiamo ritrovare noi stessi. Questa è la risposta al secondo interrogativo circa il “perché” del viaggio.

Il che ci porta alla terza domanda: “dove” ha inizio il viaggio? In una selva oscura. Non è un caso se nelle pratiche misteriche dell'antichità, che evidentemente l’iniziato Dante ben conosceva, la cerimonia di iniziazione cominciava con il soggiorno del neofita all’interno di un antro buio, a cui la “selva oscura” sembra un chiaro richiamo.

A questo punto possiamo intraprendere il viaggio, tenendo sempre presente l’invito di Virgilio a procedere con gradualità, sia nell’affrontare le tenebre: “lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato” (così, nel Canto XI dell’Inferno) che nell’affrontare la luce.

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