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GEOPOLITICA

QUEI "NANI" VOLENTEROSI PRIVI DI SENTIMENTO

QUEI "NANI" VOLENTEROSI PRIVI DI SENTIMENTO

di Giorgio Cattaneo*

Avverte il generale Fabio Mini, già alto dirigente Nato: la recita dei “volenterosi” (Macron, Merz e l’inglese Starmer) è la pietra tombale che può seppellire l’Unione Europea, l’ennesima dimostrazione plastica del fatto che un’Europa unita non esiste proprio. Al tempo stesso, l’attivismo bellicistico delle principali cancellerie continentali rappresenta una ferita di portata storica ai danni dell’Alleanza Atlantica.


Il trio europeo di presunti supporter dell’Ucraina si oppone infatti in modo plateale al piano di pace della Casa Bianca, apprezzato dal Cremlino. I signori di Parigi, Londra e Berlino fingono di ignorare che la Nato sia tuttora saldamente sottoposta al comando della superpotenza statunitense, senza la quale l’Alleanza non potrebbe sopravvivere.
Con la consueta franchezza, Mini si dice preoccupato: dove pensano di arrivare, quei tre mini-leader europei? Perché insistono nel voler sacrificare ulteriormente i poveri ucraini, ormai palesemente battuti sul campo dalle forze russe, che pure hanno risparmiato i civili ed evitato di ricorrere ad armamenti ultra-distruttivi? E in sostanza: a quale scopo i tre europei tengono in vita a tutti i costi il politico Zelensky, nei panni del “martire di professione”, prolungando all’infinito il sogno di indebolire Mosca?
Sempre secondo Mini, generosamente presente sui media in frequenti interviste, la concessione formale del Donbass alla Russia sarebbe un atto non sostanziale, poco più che simbolico. Al punto in cui siamo, con il fronte ucraino in caduta libera, i falchi russi spingerebbero il Cremlino a non fermarsi al Dnepr. E i falchi americani, finora tenuti a bada da Trump?
È evidente che Putin mira a concludere un accordo strategico con gli Usa sulla sicurezza globale a partire dal teatro europeo, approfittando della presidenza Trump. Ma dopo? L’aumento delle spese militari per l’Europa – dal 2% del Pil all’attuale 5% – ha senso solo in un’ottica anti-russa. E Mini, interpellato da Carlo Savegnago sul canale YouTube “Il Vaso di Pandora”, immagina che il budget per la guerra futura potrebbe essere anche triplicato, arrivando a portare i paesi europei a spendere in armamenti qualcosa come il 15% del loro prodotto interno lordo.
Tutto questo, mentre le autorità eurocratiche si coprono di ridicolo quasi ogni giorno, tra le sparate dell’irrilevante Ursula von der Leyen – la quale festeggia l’adozione del gas statunitense, che ci costa il triplo di quello russo – e le uscite della grottesca Kaja Kallas, vicepresidente della Commissione Ue; una “lady di latta” imbevuta di russofobia post-sovietica e proveniente da un paese, l’Estonia, che nega i diritti politici elementari alla consistente minoranza russofona che tuttora vive nel paese.
Ad applaudire i “volenterosi” c’è anche l’intramontabile Mario Draghi, onnipresente e mai eletto da nessuno. Il grande demolitore (dell’Italia e della Grecia) oggi sembra unirsi ai tifosi della guerra infinita contro la Russia e, da riconosciuto profeta di sventure, “vede” proprio nell’industria bellica la chiave dello sviluppo economico europeo. Pedina di lusso del peggior potere di ieri, l’oligarca Draghi – tra gli alfieri della privatizzazione universale del denaro, in quota ai Rockefeller – vanterebbe importanti trascorsi nei principali circuiti massonici di stampo reazionario.
Un singolare analista di fede trumpiana come Umberto Pascali, di stanza a Washington, insiste su una tesi di fondo: a dettare l’agenda dei disastri sarebbe quel che resta dell’Impero Britannico, network di potere declinato in mille forme, non sempre riconoscibili. Dalla perdita delle colonie americane alla fine del ‘700, sostiene Pascali, quella piramide si sarebbe concentrata sulla Russia come nemico da abbattere, a prescindere dal suo governo: prima l’impero zarista, poi l’Urss, ora la Russia post-sovietica.
Come gli storici hanno ampiamente segnalato, Churchill soffriva il particolare rapporto, di reciproco rispetto, che durante la Seconda Guerra Mondiale si era instaurato tra Stalin e Roosevelt, il quale nel 1945 rifiutò sdegnosamente la proposta indecente (inglese) di reclutare l’esercito nazista, ormai sconfitto dai sovietici, per invadere un’altra volta l’Urss. Scomparso improvvisamente il grande presidente del New Deal, alla Casa Bianca si insediò l’anglofilo Truman, che non esitò a sganciare le atomiche sul Giappone per intimidire Mosca, creando le premesse per la guerra fredda. Sarebbe stato proprio Churchill, di lì a poco, a evocare la “cortina di ferro”: eterno sogno britannico, la demonizzazione della potenza russa?
«Finalmente, con Trump – dice Pascali – gli Usa hanno smesso di fare il “gigante scemo” manovrato dagli inglesi, o meglio dall’élite del denaro radicata nella City di Londra: da quella centrale discendono le peggiori operazioni geopolitiche a cui abbiamo assistito, negli ultimi decenni».
L’enigmatico Elon Musk, a cui il Pentagono ha appaltato l’orbita terrestre per popolarla di satelliti, ha appena definito “IV Reich” l’Unione Europea, che ha osato infliggere una super-multa (per violazione delle regole sulla trasparenza) alla sua piattaforma “X”, l’erede di Twitter.
E mentre la distanza diplomatica tra Washington e Bruxelles si va facendo siderale, due parlamentari repubblicani, il senatore Mike Lee e il deputato Thomas Massie, hanno appena presentato un provocatorio disegno di legge che prevede addirittura l’abbandono della Nato da parte degli Stati Uniti.
Visto da lontano, lo scenario proporrebbe interpretazioni semplificate: mentre i giganti provano a fare la pace, i nani restano aggrappati alla guerra. Trump inscena il feeling con Putin soprattutto per allentare l’abbraccio tra Russia e Cina? Se anche fosse, a rimetterci sarà innanzitutto l’Europa, dominata dalle antiche oligarchie che la soffocano.
Macron, allevato dai Rothschild e da personaggi come l’oscuro Jacques Attali, sembra un Napoleone formato bonsai, oggi disprezzato dalla maggioranza dei francesi. La sua antagonista, Marine Le Pen, capo del primo partito nazionale, per ora è stata esclusa dalla competizione elettorale con una sentenza della magistratura: il classico gioco sporco.
Non vanno meglio le cose al traballante Starmer, pupillo della City finanziaria, che secondo tutti i sondaggi sarà presto travolto dal “sovranista” Nigel Farage. Guai in vista anche per l’altrettanto precario Merz, già dirigente di BlackRock, cancelliere solo grazie ai fragilissimi equilibrismi tattici di una Germania la cui “pancia” vota per l’Afd, formazione omologa a quelle di Farage e della Le Pen, tutte simpatizzanti per il trumpiano movimento Maga.
A ispirare il democratico repulisti elettorale potrebbero essere gli scandali, ipotizza Pascali, pensando alle ultime news da Bruxelles e pure da Kiev, dove i due maggiori collaboratori di Zelensky sono stati costretti alla fuga. Di risonanza comicamente planetaria il gossip sul “cesso d’oro” di Timur Mindich, che avrebbe usato fondi occidentali destinati alla guerra per farsi fabbricare un pacchianissimo water in oro massiccio.
Notoriamente, il problema eurocratico si chiama “carenza di democrazia”. Il potere oligarchico che colonizza l’Ue si comporta come un vero e proprio Ancien Régime: silenzia le opposizioni, ricorre a trucchi, abusa della censura. Ha dello scandaloso l’ennesimo bavaglio imposto a Torino al professor Angelo d’Orsi, cui è stato negato uno spazio comunale e ora anche una sala teatrale in cui avrebbe dovuto discutere di “democrazia in tempo di guerra” con lo storico Alessandro Barbero e altri interlocutori di rango, da Marco Travaglio a Moni Ovadia.
I boiardi dell’Ue isolano l’ungherese Orbán per le sue posizioni non anti-russe, condivise con lo slovacco Fico (a cui spararono al cuore, mancandolo per un soffio). Clamorose le recentissime svolte politiche in Irlanda e nella Repubblica Ceca: i vincitori delle ultime elezioni ora vogliono la pace con la Russia. E il Belgio, dal canto suo, si oppone al prelievo dei fondi statali russi congelati tre anni fa nelle banche di Bruxelles.
Se mezza Europa accenna a ribellarsi al tetro mainstreaim dei “volenterosi”, quel potere-ombra (che gli analisti come Pascali riconducono ai cascami dell’Impero Britannico) non rinuncia a mordere: inquina la democrazia in Francia e la annacqua in Germania, maltratta il nuovo governo della Georgia perché non più anti-russo, emargina l’opposizione filorussa in Moldavia, addirittura organizza un golpe bianco in Romania per tenere lontano dal governo l’uomo più votato dai rumeni, Călin Georgescu, prestigioso dirigente dell’Onu.
L’euro-spettacolo è così squallido da consentire persino di rileggere con particolare attenzione alcune perentorie affermazioni di un uomo più che controverso come il filosofo russo Alexander Dugin, arcigno guardiano dell’ultra-conservatorismo, spesso in polemica con Putin in quanto ritenuto troppo vicino alle reti sovranazionali del potere globale.
Nella sua visione neo-aristocratica e decisamente elitaria, Dugin ha gioco facile nello sparare a man salva contro i santuari dell’oligarchia occidentale. «Cosa significa per la Russia rompere con l’Occidente? È la salvezza», scriveva nel 2021. «L’Occidente moderno, dove trionfano i Rothschild, Soros, Schwab, Bill Gates e Zuckerberg, è la cosa più disgustosa della storia del mondo. Non è più l’Occidente della cultura mediterranea greco-romana, né il Medioevo cristiano, e nemmeno il ventesimo secolo violento e contraddittorio. È un cimitero di rifiuti tossici della civiltà, è anti-civilizzazione».
Ancora: «La rottura con l’Occidente non è una rottura con l’Europa. È una rottura con la morte, la degenerazione e il suicidio. È la chiave del recupero. E l’Europa stessa – i popoli europei – dovrebbero seguire il nostro esempio: rovesciare la giunta globalista antinazionale. E costruire una vera casa europea, un palazzo europeo, una cattedrale europea».
Dugin ha dovuto piangere la morte della figlia, Darja, assassinata con un’autobomba nell’estate 2022. L’esplosivo era probabilmente destinato a lui, che poco prima si era espresso con parole di questo tenore: «Gli ucraini sono nostri fratelli. Lo erano, lo sono e lo saranno. Torneranno in sé e combatteranno insieme a noi per il regno della luce, per la tradizione e una vera identità cristiana europea». Quando l’Europa e gli stessi Usa avranno «rifiutato il globalismo», sempre secondo Dugin, «allora tutti capiranno il significato della nostra guerra in Ucraina».
Al netto della sua roboante retorica, resta il dubbio (molesto) che un pensatore arcaico e divisivo come Dugin, che santifica “la tradizione” e condanna la modernità, intercetti qualcosa di profondo, annidato nel sentimento popolare: il famoso spirito russo, che poi è quel “quid” che ha sempre consentito alla Russia di respingere orgogliosamente ogni invasore.
Connessione sentimentale, dunque: ne è sicuramente titolare lo stesso Donald Trump, legato in modo empatico a milioni di elettori, mentre ne sono completamente privi i gelidi nanetti europei che vorrebbero giocare alla guerra.
La storia dice che contro il popolo si può governare solo fino a un certo punto. Poi accade sempre qualcosa, e un bel giorno scatta lo sfratto del reggente indegno. Gli espedienti per il cambio della guardia possono essere tanti. Ma una cosa è certa: il vincitore avrà dalla sua anche quell’arma in più, fondamentale. L’emotività. Il sentimento.

https://mrtv.it/quei-nani-volenterosi-privi-del-sentimento-che-cambia-la-storia/

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