Il nodo gordiano ungherese tra la Russia e l’Occidente.
L’approvvigionamento energetico dell’Europa orientale si conferma un punto nevralgico nella competizione geopolitica con Mosca. Recenti contatti tra il presidente statunitense Donald Trump e il premier ungherese Viktor Orban hanno evidenziato la complessità di questo equilibrio: mentre Washington insiste sulla necessità di ridurre drasticamente le entrate russe derivanti da petrolio e gas, Budapest si muove con calcolata prudenza, difendendo i propri interessi interni ed economici.
L’Ungheria resta una delle eccezioni più rilevanti nella strategia americana di embargo energetico. Attraverso l’oleodotto che trasporta il greggio Ural, le raffinerie del gruppo MOL ricevono combustibile a basso costo, un elemento chiave non solo per l’economia, ma anche per il consenso politico interno: il controllo dei prezzi energetici è una leva centrale della politica sociale di Orban. L’alternativa, l’oleodotto Adria dalla Croazia, ha capacità limitate e non può sostituire completamente i flussi dalla Russia, rendendo impossibile un taglio netto senza destabilizzare il mercato domestico.
Sul piano geopolitico, la questione ha implicazioni militari e strategiche evidenti. La continuità delle forniture russe a Budapest rappresenta un salvagente per Mosca, permettendo alla Russia di sostenere la propria macchina bellica e mantenere margini di pressione sull’Europa. Contemporaneamente, Bruxelles ha fissato il 2027 come termine per l’azzeramento dei combustibili fossili russi, con l’opzione di anticipare misure restrittive come il divieto di GNL e dazi energetici. L’UE, in questo contesto, si trova a bilanciare la coesione interna tra Paesi rigoristi e governi pragmatici, mentre Washington prova ad accelerare la decoupling energetica europea.
Il contenzioso tecnico tra MOL e Janaf sull’oleodotto Adria illustra la sovrapposizione tra logica industriale e strategie politiche: Budapest sostiene che l’infrastruttura non garantisce flussi adeguati, mentre il gestore croato contesta questa lettura, accusando l’Ungheria di voler preservare il vantaggio competitivo del petrolio russo. Ma dietro a queste “schermaglie” tecniche si cela la vera posta in gioco: la capacità di ogni attore di mantenere leva strategica sulla scena regionale.
Quindi : il petrolio resta sempre una leva fondamentale per controllare i mercati, il consenso interno e i flussi finanziari russi. Qualsiasi rallentamento nell’embargo assicura a Mosca le risorse necessarie per il conflitto in Ucraina e per influenzare l’Europa orientale.
La gestione delle alleanze NATO e UE richiede compromessi che bilancino pressioni esterne ma con stabilità interna, per preservare la coesione, senza indebolire la credibilità strategica dell’Occidente.
Trump, nonostante spinga per una riduzione netta delle forniture, ha riconosciuto le difficoltà logistiche di Budapest e Bratislava dopo aver avuto un incontro con il presidente turco Erdogan, indicando un approccio pragmatista: una pressione strategica, ma senza compromettere la stabilità dei partner chiave e senza creare accuse interne all’Occidente.
In definitiva, possiamo affermare che l’Ungheria rappresenta il nodo gordiano di una rete complessa, dove energia, diplomazia e strategia militare si intersecano. Ogni decisione sul petrolio russo non è solo una questione di mercato, ma una leva di potere che influenza alleanze, sicurezza e capacità operative nell’Europa orientale e non solo.