di Cosimo Risi
All’ONU i fuochi di artificio, verbali, del Presidente americano non offuscano il senso profondo delle cose. Il mondo assiste impotente a due conflitti, dopo che lo stesso Trump vanta di averne risolto sette, il primo dal 2022 ed il secondo prossimo al secondo anniversario.
Il conflitto in Ucraina è nello stallo diplomatico. La riunione di Anchorage fra Trump e Putin ha prodotto il clamore mediatico che meritava e risultati pochi e discutibili. Il cessate il fuoco pareva essere la linea rossa iniziale, il rosso si è sbiadito nel rosa delle reciproche attestazioni di stima. E poi?
E poi sul terreno lo scontro si è riacutizzato, con il rischio di trascinare dentro i paesi NATO limitrofi, finora impegnati nel fiancheggiare l’Ucraina ma badando a stare lontano dal fuoco della battaglia. Droni e aerei russi apparentemente senza controllo sorvolano i Baltici, la Polonia, forse la Danimarca, si spingono addirittura verso l’Alaska. I jet NATO, da istruzioni del Segretario Generale, possono abbatterli in caso di violazione ostile dello spazio aereo. L’abbattimento di un aereo russo con pilota segnerebbe un salto in avanti nella tensione e implicherebbe l’intervento della NATO in quanto tale. Il prodromo di una guerra mondiale, specie se è fondato l’impegno degli Stati Uniti a proteggere le sovranità europee violate.
A margine dell’Assemblea Generale, Donald Trump incontra alcuni dirigenti del mondo arabo e musulmano (Turchia, Qatar, Indonesia, Giordania e altri). Promette loro che impedirà al Governo di Israele di annettere la Cisgiordania in risposta al riconoscimento dello Stato di Palestina. Il suo Inviato Witkoff si dice fiducioso in una soluzione della crisi a Gaza e sulla viabilità di un piano presidenziale in 21 punti. I passaggi salienti: rilascio immediato degli ostaggi; fine del conflitto mediante un durevole cessate il fuoco; graduale ritiro delle forze armate israeliane; spiegamento di una forza multilaterale araba e musulmana; limitata presenza dell’Autorità Palestinese per l’amministrazione; esclusione di Hamas da qualsiasi ruolo.
Il piano poggia quasi del tutto sull’impegno americano. Israele avrà difficoltà ad eseguirlo, alcuni punti collidono con la strategia dei partiti politici della coalizione, in particolare la responsabilità da affidare ad una forza multilaterale non israeliana. L’Autorità Palestinese ne sarebbe rinfrancata. Hamas sin d’ora dà per scontata l’esclusione, il che non significa che scomparirà dall’orizzonte politico. Potrebbe rinvigorirsi in Cisgiordania, se nel frattempo l’AP fallisse nel compito.
Alcuni paesi occidentali riconoscono la Palestina. La cosiddetta anglosfera si spacca: Australia, Canada Regno Unito, tradizionalmente vicini alle ragioni statunitensi, si associano alla Francia. Intendono premere su Washington perché induca Gerusalemme a fermare l’eccidio e liberare gli ostaggi per via transattiva. Gli Stati Uniti hanno le chiavi per indurre Israele alla ragione e contrastarne la deriva autoritaria: quel senso di onnipotenza per cui tutto si può ottenere con la forza ma che, alla lunga, ne consuma il tessuto democratico e lo isola dal resto del mondo.
Israele dichiara la vacuità del riconoscimento e, per ritorsione verso l’Autorità Palestinese, chiude il valico di Allenby, la sola via di accesso della Cisgiordania verso la Giordania. Il danno è enorme in termini economici e morali. Buona parte del commercio passa di là, molte famiglie vivono a cavallo del confine. La stessa Giordania chiede l’immediata riapertura del valico.
Il riconoscimento ha valore simbolico. La Palestina in quanto stato non esiste nell’immediato né nel prossimo futuro. La sua creazione è resa problematica dalla decisione di Israele di allargare gli insediamenti in Cisgiordania e dalla minaccia di sottoporre Gaza all’amministrazione militare. Il riconoscimento serve a dare dignità di nazione ad un popolo che si trova nella morsa del terrorismo, dell’occupazione, della cattiva amministrazione. Una bandiera morale per dare speranza a chi ne ha pochissima. Il riconoscimento potrebbe indurre l’Autorità Palestinese all’energica presa di posizione sugli ostaggi ed all’autoriforma in senso tecnocratico.
La speranza va data agli Israeliani. La delusione per il tradimento del 7 ottobre inchioda la collettività al risentimento. Nutre la diffidenza verso i Palestinesi in quanto tali, tutti accomunati dall’essere silenti se non complici. Il sentimento alligna ovunque. E d’altronde le vittime del 7 ottobre sono in buona parte gli esponenti del dialogo. Le manifestazioni del sabato davanti alla residenza del Primo Ministro sono più per la liberazione degli ostaggi che per la cessazione delle ostilità. Il destino dei Gazawi è irrilevante rispetto al trauma dell’eccidio.
La frustrazione e la disperazione da una parte, la delusione e la paura dall’altra alimentano lo scontro, rendono difficile una via negoziata alla crisi. Occorre una visione diversa della posta in gioco. L’impegno dell’Occidente, degli Stati Uniti verso Israele, dell’Europa verso il mondo arabo, avrebbe la missione di ripristinare quel minimo di fiducia che è alla base di qualsiasi intesa.