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GEOPOLITICA

LE CONDIZIONI DELLA TREGUA, LE PROSPETTIVE DI PACE

LE CONDIZIONI DELLA TREGUA, LE PROSPETTIVE DI PACE

di Cosimo Risi

La retorica di Donald Trump confonde. La tregua a Gaza prelude alla pace fra Israeliani e Palestinesi, la pace stabilizza la regione e la proietta verso un futuro di benessere condiviso, persino con l’Iran denuclearizzato.
La prospettiva è allettante, sarebbe dai falliti accordi di Oslo dei Novanta che non si assiste ad una costruzione diplomatica così ambiziosa. Qualche fondamento perché il percorso si avvii davvero c’è.


Il primo è il perdurante impegno americano nello spingere tutte le parti in causa verso la cooperazione. Spingere i Palestinesi affinché abbandonino la via del terrorismo, spingere gli Israeliani a rinunciare al feticcio della forza, spingere gli Iraniani a rivedere la loro bellicosa specialità a favore della convivenza. Se i tre protagonisti della partita accettano di giocare il gioco con le carte del mazziere americano, gli altri attori seguiranno. I segnali non mancano. Le Monarchie del Golfo hanno i soldi e finalmente la voglia di spenderli per la costruzione. Il Libano s’impegna a limitare l’ingerenza di Hezbollah per ripristinare una dignitosa statualità. La Siria si stabilizza sotto il nuovo regime e dalla tregua con Israele passa alla pace.
La tregua ha però molte attenuanti e molti punti deboli. La fretta dei negoziatori, comprensibile trattandosi di arrestare i massacri e liberare gli ostaggi, ha molti non detto. L’incertezza, ovvero il diavolo, si nasconde nei dettagli.
Hamas va disarmato ed escluso dall’amministrazione della Striscia. Hamas non disarma, gli Americani riconoscono all’organizzazione una funzione provvisoria di polizia. Hamas adopera le armi contro gli oppositori. Con ferocia li elimina in pubbliche esecuzioni perché siano di esempio a quanti meditino di collaborare con il nemico. Traccheggia nel rilasciare le salme degli ostaggi. Il ritardo offre a Israele il motivo per limitare l’afflusso degli aiuti attraverso il valico di Rafah.
I dirigenti di Hamas non riparano in esilio. Gaza è la loro terra ed è il luogo, ancora bucherellato di gallerie, dove hanno riparo dalle incursioni dei Servizi israeliani. Questi hanno dimostrato di non conoscere i santuari: si pensi all’attacco al Qatar.
L’amministrazione tecnocratica di Gaza vedrebbe impegnate varie potenze e varie personalità, fra cui quella discussa di Tony Blair. Hamas non vuole i non-palestinesi. Non li vuole nell’organismo di comando e neppure nella forza di stabilizzazione? L’aspetto è determinante. Su Blair, il Presidente Trump appare possibilista, l’uomo gli piace ma non lo convince il suo mediocre passato da inviato per il Medio Oriente. Sulla multinazionalità dell’organismo di comando e della forza di stabilizzazione non può transigere. Affidare i compiti ai soli Palestinesi sarebbe di dubbia efficacia, non avendo questi le capacità tecnico-politiche, ed aprirebbe una faida interna simile a quella del 2007, quando Hamas defenestrò letteralmente Fatah e prese tutto il potere.
Il ruolo della Turchia è problematico. Il Presidente Erdogan piace a Trump, è “un duro” e lui preferisce i duri ai molli (un’allusione a Macron e Sanchez?) nonché le giovani donne belle (Meloni). Non piace, ricambiato, a Netanyahu. La presenza dell’uno esclude l’altro, lo schieramento di truppe turche ostili a Gaza non è il migliore viatico per la collaborazione delle IDF.
Ed infine il ritiro israeliano. Quando avverrà ed in quale misura? Israele deve superare il tabù che le sue frontiere siano guardate da paesi terzi. Tranne che degli Americani, Gerusalemme diffida di tutti gli altri, specie di Arabi ed Europei. I primi sono ambigui per definizione, i secondi sono volatili e con scrupoli umanitari. Un soldato europeo oserebbe colpire una donna o un bambino pronti a compiere un attentato?

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