Il nuovo equilibrio nei mari: Taiwan e gli attacchi nel Mar Rosso un’unica logica strategica per il potere dei passaggi
Nel silenzio dei fondali e nel traffico incessante dei porti, si disegna oggi la vera frontiera del potere mondiale. Due scenari apparentemente lontani – le tensioni tra Cina e Taiwan e la crisi marittima nel Mar Rosso – raccontano in realtà una medesima storia: la trasformazione della geostrategia globale in chiave infrastrutturale, logistica e digitale. Chi controlla i mari, le rotte e i flussi informativi, oggi controlla la politica internazionale.
Da mesi, Pechino alterna pressioni militari, campagne di disinformazione e manovre di coercizione economica verso l’isola di Taiwan. Le esercitazioni congiunte della Marina e dell’Aeronautica cinese, sempre più ravvicinate allo spazio aereo taiwanese, rappresentano una strategia calibrata: alzare progressivamente il livello di intimidazione senza superare la soglia che giustificherebbe una risposta armata diretta degli Stati Uniti.
Parallelamente, Pechino ha adottato strumenti non convenzionali: sanzioni personali contro funzionari taiwanesi, “ricompense legali” per informazioni su presunti separatisti, e una guerra psicologica che mira a logorare la fiducia della popolazione.
Il messaggio è chiaro: Taiwan deve essere isolata politicamente prima ancora che militarmente. Ma dietro la retorica nazionalista si cela una posta economica immensa: il controllo delle catene del valore tecnologico, in particolare dei semiconduttori, di cui l’isola rappresenta il cuore produttivo mondiale.
Una crisi nello Stretto di Taiwan non significherebbe soltanto uno scontro politico, ma una paralisi tecnologica globale, con conseguenze sull’intera filiera industriale occidentale.
Nel frattempo, a migliaia di chilometri, un’altra tensione ridefinisce la mappa del potere: gli attacchi Houthi nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, continuano. Quello che all’inizio sembrava un riflesso della guerra a Gaza si è trasformato in una guerra per le vie del commercio mondiale.
Le navi mercantili, dirette attraverso Suez, affrontano un rischio crescente. Le compagnie di navigazione deviano i percorsi verso il Capo di Buona Speranza, aggiungendo settimane di viaggio e costi esorbitanti. La conseguenza è una pressione silenziosa ma devastante su economie europee e asiatiche, che dipendono da queste rotte per energia e materie prime.
Il Red Sea è oggi il luogo dove si misura il nuovo equilibrio tra sicurezza marittima e libertà economica. Le flotte occidentali cercano di garantire la protezione dei convogli, ma l’instabilità politica nello Yemen e la complicità di attori regionali rendono incerto ogni intervento.
Dietro gli Houthi, tuttavia, si intravede un disegno più ampio: la proiezione d’influenza iraniana e il tentativo di minare l’ordine navale dominato dall’Occidente. Colpire le rotte significa colpire il sistema globale dei flussi, dalla logistica commerciale alle comunicazioni digitali che corrono sui cavi sottomarini. E’un’unica logica strategica: il potere dei passaggi, infatti Taiwan e il Mar Rosso non sono crisi separate, ma manifestazioni di una stessa tensione strutturale: la lotta per il controllo dei corridoi vitali del pianeta. Lo Stretto di Taiwan è la porta del Pacifico, come Suez è la chiave tra Mediterraneo e Indo-Pacifico. Entrambi sono “chokepoints” geopolitici, punti di strozzatura attraverso cui passano non solo merci, ma energia, dati e influenza politica.
Le grandi potenze non cercano più soltanto il dominio territoriale, ma il dominio funzionale: governare le connessioni, regolare i flussi, stabilire chi passa e a quale prezzo. È una nuova forma di potere, meno visibile ma più pervasiva, che si esercita attraverso il controllo delle infrastrutture critiche e delle tecnologie che le sorreggono.
Nel mondo post-pandemico e post-globale, la geografia torna a dettare la politica. Le rotte marittime, i cavi sottomarini , gli stretti e i porti strategici non sono più soltanto coordinate sulla mappa, ma architetture di potere.
La tensione nello Stretto di Taiwan e quella nel Mar Rosso raccontano la stessa verità: la globalizzazione non è finita, ma si è fatta selettiva e contesa.
E mentre le superpotenze misurano la loro forza sulle onde e nelle profondità dei mari, l’economia mondiale naviga in un equilibrio sempre più precario, dove ogni flusso di merci, di dati, di energia, è ormai parte integrante del campo di battaglia geopolitico.







