Ho appena terminato un ottimo pasto en bord de mer a Leucate Plage.
Il ristorante dove ho mangiato mi affascina da anni. Già il nome è una poesia, La Côte Rêvée, la costa sognata.
Questo nome è legato alla storia del proprietario, uno chef due stelle Michelin che aveva un locale nell’interno della Francia e sognava di aprire in un luogo ameno del Midi. E così fece. Per nostra fortuna.
Mentre contemplo il mare, una coppa di Blanquette de Limoux in mano, le idee si succedono chiare come l’ambrosia che scorre sul mio palato.
Questo vino, inventato dai monaci di St-Hilaire nel 1531, veniva imbottigliato tradizionalmente in una giornata di particolare significato astrologico.
Dal 1990 la Blanquette ha un fratello il Crémant de Limoux che però è differente come vitigno principale e come metodo di fermentazione.
Infatti, nella Blanquette il vitigno prevalente è quello storico della zona, il magnifico Mauzac, mentre nel Crémant è lo Chardonnay ad avere la precedenza.
Ma avrei dovuto parlare di vini rossi, rossi come il sangue dei martiri.
Non posso non sentire sulle spalle il peso delle vite di chi, come i Catari, i Puri, ha voluto cercare il significato profondo, occulto della Rivelazione al fine di trovare il sod, il segreto dei Kabbalisti, sulla Via della reintegrazione dell’Uno.
Ecco perché, ai piedi del Montségur, in calda e soleggiata giornata, invocai la forza dello Spirito per arrivare in vetta.
La gita non era prevista e io ero totalmente impreparato all’ascesa.
Mocassini di cuoio, maglioncino di cotone, calzoni lunghi, oltre 100 kg. di pancia e nessun allenamento, a parte il pacchetto di sigarette quotidiano, perché allora ancora fumavo.
All’imbocco del sentiero vigorosi e salutisti anglosassoni di mezza età, perfettamente abbigliati per il trekking e visibilmente in forma, avanzavano con fiero cipiglio.
Io pregavo lo Spirito Santo e di fronte ai dubbi della mia compagna, giustamente preoccupata che non mi venisse un coccolone, le risposi che, se era giusto che io arrivassi in cima, Hashem avrebbe provveduto e in caso contrario mi sarei fermato.
Adoro rispondere così alla gente, imitando il Cavaliere Ospitaliere nel film Kingdom of Heaven di Ridley Scott.
“Ora salpa per Gerusalemme, come desiderava tuo padre. Ti seguirò entro una settimana. Il viaggio è pericoloso. Se Dio ha un disegno per te lì, ti proteggerà con le sue mani. [pausa] Se così non fosse, che Dio ti benedica.”
Ma dice anche: “Non credo nella religione. Con la parola religione ho visto la follia dei fanatici di ogni confessione essere definita volontà di Dio. Ho visto troppa religione negli occhi di troppi assassini. La santità sta nelle azioni giuste e nel coraggio a favore di chi non può difendersi. E la bontà, ciò che Dio desidera, è qui [indica la testa di Baliano] e qui [indica il cuore di Baliano] e dalle tue decisioni quotidiane dipenderà se sarai un uomo buono... o no.”
Ecco un assaggio di sod dalle labbra del personaggio di Scott che ci riporta ai piedi del Montségur all’inizio della mia ascesa.
Al secondo gruppo di Anglosassoni superati con passo veloce, il viso della mia compagna, ottima camminatrice anche in montagna, si faceva sempre più meravigliato.
Il mio respiro non divenne neppure affrettato …
Arrivammo presto in cima, al castello e, entrato in meditazione, cominciai a vedere immagini del passato.
Per fortuna li ho visti felici ed in preghiera, non bruciati vivi in nome del più Mite degli Agnelli.
La fortezza venne costruita nel 1204 da Raymond de Péreille, signore del luogo, quale santuario proprio per i catari.
In questo senso Montségur divenne notissima e nel 1233 i p/cretini, con la loro consueta eleganza, definirono la fortezza “Sinagoga di Satana”, anche se non è chiaro cosa c’entrassero le sinagoghe e gli ebrei nella questione.
I Catari, pur predicando la castità, ricevettero anche le consuete accuse di comportamenti sessuali illeciti, incesti etc. che in ogni epoca il potere utilizza per titillare il popolino e i notabili assieme, ambedue vogliosi di partecipare alle supposte orge e non potendolo fare si soddisfano nel veder bruciare i presunti colpevoli.
Così alle prime luci dell’alba del 16 marzo 1244, duecentoventidue povere creature di D-o vennero arse vive da bravi cristiani, preti e cavalieri, ossequiosi al potere temporale ed ecclesiastico.
Il prato ove si svolse questa tragedia venne chiamato in occitano Prat dels cremats, “prato dei bruciati”.
Questo evento può essere definito simbolicamente anche l’atto finale della famigerata Crosada dels albigeses, ufficialmente terminata nel 1229 ma le cui conseguenze, politiche, sociali e spirituali durarono ancora a lungo.
Anzi la Crociata, nel Tolosano e in tutte le terre occitane non è stata mai dimenticata.
La Crociata pose fine all’illuminato e fecondo autonomo dominio dei Conti di Tolosa su queste terre meravigliose e costituì il trampolino di lancio della Santa Inquisizione e delle truppe d’assalto dell’Ordine Domenicano.
Oltre al rogo di Montségur, che sancì la fine definitiva della guerra contro i catari in Occitania e ad altri innumerevoli atti di inaudita violenza spicca in questa lurida storia il massacro di Béziers avvenuto il 22 luglio 1209, all’inizio della rapina, nota come Crociata contro gli Albigesi, che il re di Francia assieme ai “Barons du nord”, su invito di papa Innocenzo III, intraprese contro i ricchi ed indipendenti Signori Tolosani ed i loro vassalli.
Ecco cosa scrisse il legato pontificio, abate di Citeaux, Arnaud Amaury che comandava le truppe crociate:
«L’indomani, festa di Santa Maria Maddalena, noi cominciammo l’assedio di Béziers, città che pareva dover per lungo tempo fermare la più numerosa delle armate. Ma non c’è forza né prudenza contro Dio! I nostri non rispettarono né rango, né sesso, né età: ventimila uomini, cristiani e catari, circa furono passati al filo della spada e questa immensa carneficina fu seguita dal saccheggio e dall’incendio della città intera: giusto risultato della vendetta divina contro i colpevoli!».
Oggidì gli storici fanno a gara per diminuire il numero delle vittime, uno sport molto praticato anche relativamente alla Shoà.
Come se facesse qualche differenza: leggendo le parole del legato papale se ne avesse massacrati centomila per lui sarebbe stato anche meglio …
Poi c’è la sterile querelle sulla celebre frase riportata da Cesario di Heisterbach: “Uccideteli tutti! Il Signore conosce i suoi,” frase direttamente tratta dalla Seconda lettera a Timoteo (2,19).
L’ha detta? Non l’ha detta? Anche qui fa poca differenza a mio avviso.
Se non l’ha pronunziata è perché non gli è venuta in mente, non per rifiuto di un tale osceno concetto.
Ma da quella terra irrorata dal sangue dei Puri in quel tempo altri fiori emergevano profumati e preziosi, come il Sefer HaBahir, Il Libro della Luminosità di cui parleremo nella prossima puntata.
Gli eventi di quella cosiddetta “impresa” sono descritti in una grande opera letteraria in lingua Occitana, poco conosciuta nel nostro paese: La Canso de la Crozada.
Opera unica, come unico è il manoscritto che la contiene nella sua interezza, conservato nella Biblioteca nazionale di Francia.
La Canso, come genere, rappresenta per la lingua occitana ciò che la chanson de geste è stata per la letteratura in lingua d'oïl e ne esistono vari esempi.
Quella in oggetto rappresenta sì un documento unitario, ma sicuramente scritto da due autori diversi, malgrado la mano del copista sia sempre la stessa per tutte e due le parti.
La Canso è divisa in stanze chiamate laisses; di queste le prime 130 sarebbero state composte dal navarrino Guilhèm de Tudèla, come lui stesso si nomina nel testo.
Le lasse da 131 a 214 sono di più incerta attribuzione, anche se la maggioranza degli studiosi propende per il trovatore Gui de Cavalhon, nobile tolosano e fedele vassallo di Raimondo VI di Tolosa, che noi comunque chiameremo l’Anonimo come è uso da parte degli studiosi.
Con ciò si spiega anche il contenuto contraddittorio delle due distinte parti, la prima favorevole alla Crociata e la seconda assai critica sul medesimo tema, anche se non positiva verso il movimento cataro.
L’Anonimo, infatti, lamenta che, sotto il pretesto della guerra all’eresia, il re di Francia e i “baroni del nord” ne abbiano approfittato per diminuire fortemente l’orgoglio e l’autonomia dei Tolosani.
Detto ciò, all’inizio del poema (lassa n.2) Guilhèm de Tudela scrive:
Senhors, esta canso es faita d’aital guia
Com sela d’Antiocha et ayssis versifia
E s’a tot aital so, qui diire lo sabia.
“Signori, questa canzone è composta al modo/ di quella di Antiochia, la versificazione è la stessa/ e ha la stessa melodia, per chi la sa suonare. “
Per bocca stessa dell’autore, un’altra Canso, la Canso d'Antiocha, poema epico in occitano del tardo secolo XII, costituì il modello letterario per la Canso de la Crozada.
La Canso d’Antiocha fu preceduta da un altro poema epico, sempre in lingua occitana, scritto da Gregorio Bechada probabilmente tra il 1106 e il 1118, cioè pochi anni dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099, evento culminante della Prima Crociata.
Ciò risulta assai importante perché questa Canso è parzialmente basata su testimonianze oculari, visto l’importante contributo dei cavalieri occitani alla Crociata.
La Canso d’Antiocha racconta le epiche gesta dei cavalieri della Francia meridionale e dell'Italia meridionale, sotto Boemondo di Taranto di cui troppo poco si parla.
A Trani, nella Chiesa di Ognissanti, i cavalieri italo-normanni in partenza per la Prima Crociata, guidati da Boemondo d’Altavilla, prestarono giuramento prima di salpare per l’Oriente.
Accanto ai possenti guerrieri originari del nord della Francia, diverse antiche famiglie di discendenza romana e tardo romana si unirono ai loro nuovi signori, dopo aver rinnegato in precedenza la loro fedeltà a Bisanzio.
Raimondo di Saint-Gilles, provenzale, quarto conte di Tolosa e marchese di Provenza guidava invece gli occitani.
Incidentalmente, uno degli eventi più noti della Prima Crociata fu un grande massacro di Ebrei in Renania nel corso della “crociata dei tedeschi” in ebraico Gzerot Tatenu. Anche in Boemia ci furono numerosi massacri ai danni delle comunità ebraiche.
Secondo lo storico ebreo Solomon bar Simson, Goffredo di Bouillon, futuro primo re a Gerusalemme, avrebbe fatto questo giuramento: “di intraprendere questo viaggio solo dopo aver vendicato il sangue del crocifisso spargendo sangue ebraico e sradicando completamente ogni traccia di coloro che portano il nome di "ebreo", placando così la propria ira funesta.”
L'imperatore Enrico IV (dopo essere stato informato di questo voto da Kalonymus Ben Meshullam, il leader ebraico di Magonza) emise un ordine che proibiva tale azione. Goffredo affermò di non aver mai avuto l'intenzione di uccidere gli ebrei, ma la comunità di Magonza e Colonia gli inviarono ugualmente un “donativo spontaneo” di 500 marchi d'argento. Non si sa mai …
Ma non servì a nulla. Proprio a Magonza si verificarono le maggiori violenze, con almeno 1.100 ebrei uccisi. Di fronte alla scelta tra la fuga, la morte e la conversione, alcuni optarono per una quarta disperata alternativa: il martirio attivo, cioè l'uccisione della propria famiglia e di sé stessi. Un uomo, di nome Isaac, si convertì con la forza, ma, tormentato dai sensi di colpa, in seguito uccise la sua famiglia e si bruciò vivo nella sua casa. Un'altra donna, Rachele, uccise i suoi quattro figli con le sue stesse mani, affinché non venissero rapiti e allevati come cristiani.
Il 27 maggio 1096 il già citato Kalonymus Ben Meshullam, assieme ad altre cinquantatré ebrei, che si erano rifugiati nel palazzo vescovile per sfuggire ai crociati, si uccise piuttosto che cadere nelle mani del nemico.
Malgrado tutto ciò vorrei sottolineare che la Prima Crociata, rispetto a quella contro i Catari, appare decisamente più giustificata, anche se qualche storicuzzo woke potrebbe non essere d’accordo.
Infatti, qualche legittimo motivo di preoccupazione la Chiesa e la nobiltà d’occidente potrebbero anche averlo intrattenuto.
Cosucce, come i continui massacri di pellegrini cristiani, ovvero il fatto che il califfo al-Hakim bi-Amr Allah, regnante a Gerusalemme cercò di annientare completamente i suoi sudditi cristiani ed ebrei. La sua amministrazione fu caratterizzata da confische di proprietà, saccheggi, umiliazioni, imprigionamenti ed esecuzioni. Al-Hakim decretò anche un abbigliamento particolare sia ai cristiani, ai quali ordinò anche di indossare una croce di cinque libbre di peso, che agli ebrei, ai quali impose di appendere al collo una pesante campana. I cristiani furono esclusi dalle posizioni amministrative e le chiese furono demolite.
Nel 1009 al-Hakim ordinò a Yaruk, governatore di Ramla, “di demolire la chiesa della Resurrezione e di rimuovere i suoi simboli, e di sbarazzarsi di ogni traccia e ricordo di essa”. Si trattava della Chiesa del Santo Sepolcro, il luogo in cui i cristiani credevano fosse stato sepolto Gesù. La chiesa fu “demolita fino alle fondamenta” e anche gran parte della grotta fu raschiata via. La chiesa del Martirio di Costantino fu completamente distrutta e mai ricostruita.
La notizia di questo oltraggio fu diffusa in Europa da numerosi testimoni oculari, tra cui Ulrico, vescovo di Orléans e Adémar di Chabannes, e contribuì alla risposta zelante all'appello di Papa Urbano II per la Prima Crociata.
Ma torniamo alla Canso de la Crozada e precisamente alla lassa XXI, il massacro di Beziers:
“I signori di Francia e quelli dei dintorni di Parigi, ecclesiastici e laici, principi e marchesi, concordarono tutti che in ogni castello che l'esercito avrebbe raggiunto, se avessero rifiutato di arrendersi quando richiesto da quest'ultimo, una volta conquistato sarebbero stati massacrati e uccisi con la spada. E non si trovò nessuno che opponesse resistenza, tanto erano terrorizzati da ciò che avevano visto. Fu così che Montréal e Fanjeaux furono conquistate e l'intero paese. E vi assicuro che non sarebbero state assaltate se non fosse stato per questo. Ecco perché furono sconfitti e massacrati a Béziers, uccidendoli tutti (non poteva andare peggio). Uccisero tutti coloro che si erano rifugiati nel monastero, e né la croce né l'altare né il crocifisso poterono salvarli. Questi furfanti sciocchi e mendicanti uccisero anche il clero, le donne e i bambini, credo che nessuno sia scampato. Che Dio accolga le loro anime, se lo desidera, in paradiso! Non credo che nessuno, dai tempi dei Saraceni, abbia mai decretato o compiuto un tale massacro. I furfanti si stabilirono negli alloggi che avevano preso con la forza, dove trovarono molte ricchezze e beni, ma quando i francesi lo scoprirono, si infuriarono, li cacciarono con i bastoni come cani e portarono dentro i loro cavalli e muli, perché al potere non si può resistere.”
Proprio come accadde a Gerusalemme nella Prima Crociata, quando il massacro da parte dei cavalieri crociati non risparmiò musulmani, ebrei o cristiani … anche in quel caso D-o scelse i suoi.
Come scrive l’ottima studiosa Geneviève Young nel suo saggio “Futurity and Finitude in the Canso de la Crozada”:
“A volte semplificata eccessivamente come un puro conflitto tra Nord e Sud, la Canso de la Crozada riflette le complessità della comunità nel Midi. Riflette anche le mitologie della comunità, alcune delle quali sono di lunga data, altre invece si stanno creando in tempo reale e continuano a svilupparsi nel corso della vita testuale del poema. Sarà quindi importante tenere presente che nessuna delle due opere presenta una visione semplicistica delle comunità, che possono essere ridotte interamente a una delle due parti, ma che sono invece rappresentative di molteplici interessi intrecciati e contrastanti. Si trattava di una guerra tra persone con legami familiari molto stretti: Raimondo VI, verso il quale Anonimo mostra immensa lealtà, e Baldovino, protettore di Guilhèm e uno dei suoi grandi eroi, erano fratelli. Il re francese Filippo II Augusto e Raimondo VI erano cugini di primo grado. Lungi dall'essere una semplice questione di invasione della Provenza da parte della Francia, il conflitto coinvolse molte contee meridionali e mise i vicini gli uni contro gli altri. La crociata e la resistenza opposero anche potenze straniere; le corone d'Aragona e d'Inghilterra fornirono denaro, uomini o entrambi, e gli ordini religiosi e i loro rappresentanti di tutta Europa furono coinvolti in vari modi. Inoltre, si trattava di un conflitto tra cristiani: per Anonimo, la Chiesa romana e il suo clero sono responsabili della devastazione tanto quanto la Corona, e per Guilhèm, l'atto di proteggere gli eretici non significa che il giovane Raymond-Roger Trencavel, visconte di Béziers e Carcassonne, non fosse un cristiano perfetto che era caduto accidentalmente in cattive compagnie. Forse ancora più importante, questo è un conflitto che ha avuto luogo tra uomini potenti provenienti da tradizioni di governo diverse. Scatenata dall'assassinio del legato papale Peire de Castelnau, la ragione apparente della crociata era la soppressione dell'eresia, e i baroni del sud, guidati dalla potente dinastia dei Raymondin con a capo Raimondo VI, erano considerati troppo tolleranti nei confronti degli eretici presenti tra loro, o addirittura eretici essi stessi. La natura stessa dell'eresia è controversa e la Canso non la descrive mai né nomina le vittime più famose della crociata albigese, i catari. Indipendentemente dalle sue origini, l'esito della crociata stessa e dell'inquisizione che seguì fu un conflitto brutale, sanguinoso e multigenerazionale, i cui effetti si sono ripercossi nei secoli; la crociata ha contribuito alle mitologie locali nel sud della Francia moderna, anche se spesso in modo anacronistico e al limite della falsità.”
L’Anonimo, vero e proprio “partigiano” del campo di Tolosa, introduce nel suo testo valori morali che conferiscono allo scontro tra i crociati e i tolosani l'immagine letteraria di una lotta di resistenza del Bene contro il Male:
“Da un lato ci sono Paratge, la nobiltà d'animo, il senso dell'onore, le virtù di un cuore generoso, inseparabile da Pretz, il merito personale, accompagnato dal diritto, Dreitz, la giustizia della causa, Dreitura, la lealtà, Lialtatz. Dall'altro lato, l'orgoglio, Orgolhs, la hybris, Desmesura, l'inganno, Engans, la malafede, Falhimens. I primi simboli si applicano naturalmente a Raimondo VI e a suo figlio, il giovane conte, gli altri a Simon di Montfort e ai suoi sostenitori. È anche la lotta tra la Croce e il Leone. Il poema è scritto in onore di Tolosa e della casata comitale. Il suo eroe è il futuro Raimondo VII, «il valoroso giovane conte che guida i combattimenti», in lui «risiede tutto il valore», egli «rispetta Paratge e abbatte gli orgogliosi», «ridà splendore e magnificenza a coloro che sono stati o sono stati spogliati».” (Dossat, Cahiers de Fanjeaux, 1969).
Ecco il giovane conte, le coms joves, ecco i suoi cavalieri e il loro Paratge un termine intraducibile che era anche il loro grido entrando spavaldi in battaglia: “Paratge, et Merci!”
Il termine dell'antico occitano «Paratge» è relativamente frequente nella poesia dei trovatori, dove assume alternativamente il significato originario di «nobiltà di sangue» e quello più originale di «nobiltà di cuore» o «di merito». È noto soprattutto per il suo utilizzo appunto nella Canso de la Crozada, di cui rappresenta il valore centrale e che continua ad affascinare molti autori contemporanei per il suo significato «patriottico». La riscoperta del testo della Canso nel XIX secolo – nel contesto del risveglio delle nazionalità in Europa e dei primi movimenti rinascimentali occitani – e soprattutto nella seconda metà del XX secolo, ha reso il termine Paratge molto comune nel discorso occitanista e tra gli scrittori e gli artisti di espressione occitana.
Ma è l’interpretazione di Simone Weil che voglio qui proporre:
“«Il poeta di Tolosa [l'autore anonimo della seconda parte della Canso] percepisce molto vividamente il valore spirituale della civiltà attaccata; lo evoca continuamente, ma sembra incapace di esprimerlo e usa sempre le stesse parole, Prix et Paratge, a volte Paratge et Merci. Queste parole, che oggi non hanno equivalenti, designano valori cavallereschi. Eppure, è una città, è Tolosa che vive nel poema, e vi palpita tutta intera, senza alcuna distinzione di classe. Il conte non fa nulla senza consultare tutta la città, «li cavalier el borgez e la cuminaltatz», e non le dà ordini, ma chiede il suo appoggio; questo appoggio è accordato da tutti, artigiani, mercanti, cavalieri, con la stessa gioiosa e completa dedizione. È un membro del Campidoglio che arringa davanti a Muret l'esercito opposto ai crociati; e ciò che questi artigiani, questi mercanti, questi cittadini di una città – non si può applicare loro il termine borghesi – volevano salvare a prezzo della vita era la gioia e lo splendore, era una civiltà cavalleresca.
(Émile NOVIS, pseudonimo di Simone WEIL, L'agonie d'une civilisation -1943)
Ed è proprio con la magnifica Tolosa, la città rosa ma anche delle rosa, così vicina a Lourdes, che voglio terminare questo modesto intervento sulla Canso e ancora con le parole di Geneviève Young:
“Guilhem dice di Tolosa che «que totas ciutatz es cela flors e roza» (Di tutte le città, questa è il fiore e la rosa, 79.9), ma è il poeta Anonimo a conferire alla città il significato mitologico più elevato. Eliza Miruna Ghil sottolinea un passaggio che descrive la demolizione della città da parte dell'esercito crociato nel 1216. In questo passaggio, Tolosa e Paratge sono considerati termini paralleli, il che indica l'uso da parte del poeta anonimo di «Tolosa» come termine collettivo che è «un essere simbolico che incarna una civiltà urbana legata in modo ineffabile al lignaggio dei Raymondin e consustanziale ai valori di cui essi sono i campioni». Raguin fa eco a questa affermazione, aggiungendo che “Toulouse” è rappresentativa di un ideale cristiano trascendente e dei valori di un tipo specifico di società cortese e cavalleresca. Laurent Macé fa un passo avanti affermando che la parte anonima non si occupa solo di una “Toulouse” che potrebbe andare perduta, ma si concentra piuttosto sulla speranza dei giovani, sulle dinastie meridionali mantenute in vita grazie a sangue nuovo non contaminato dai sospetti di eresia che hanno segnato la generazione precedente, sulla continuazione del Paratge.
Le affermazioni di Macé sulla speranza dei giovani, incarnata in modo particolarmente vivido nel coms joves Raimondo VII, evocano chiaramente l'avenir/à venir di Nanci e la «chiamata che ci convoca» nel senso che il mito, così come è scritto, chiama o convoca il suo pubblico verso un limite ancora indeterminato.
L'à venir è alla base delle scelte narrative del poeta Anonimo ed è una caratteristica della forma poetica da lui adottata.
Mentre Guilhem predilige la laisse capcaudada, in cui l'ultimo semi versetto della laisse stabilisce la rima per quella che segue, l’Anonimo preferisce la laisse capfinida, che introduce una parola nell'ultimo verso della laisse che verrà poi ripresa e ripetuta in tutta la laisse successiva. Sia la capcaudada che la capfinida sono tipiche del trobar clus della poesia lirica occitana che, ridotto alla sua definizione più semplice, mostra una lirica che è «consapevolmente e deliberatamente resa di difficile accesso e richiede una ricettività più acuta del normale da parte del lettore».
Mentre Guilhem aderisce in modo piuttosto rigido alle convenzioni della capcaudada, l’Anonimo si discosta leggermente riportando l'intero semi versetto nella prima riga della capfinida successiva.
Ad esempio, la laisse 189 termina con «En aquesta manera es pres l’acordamens / Com fassan los dos setis» (In questo modo viene presa la decisione / che si debbano organizzare due assedi, 124-25), seguita direttamente nella laisse 190 da «Com fassan los dos setis es lo cosselhs donatz / Entre ls baros e·l comte empres e autreiatz» (Che si debbano organizzare due assedi è proposto, / deciso e concordato tra i baroni e il conte, 1-2). Analogamente, la laisse 210 termina con «Si nos volon atendre, o lor plassa o lor pes / Hoi auran la batalha» (Che vogliano aspettarci o no, che lo vogliano o no, / oggi avranno la battaglia, 99-100), dove la mezza riga è immediatamente ripresa nella 211 con “Hoi auran la batalha veramen, si Dieu platz / Ez a la departida, veirem cals tendra·ls datz!” (Oggi avranno la battaglia, davvero, se Dio vuole / e quando le cose saranno divise vedremo chi tiene i dadi! 1-2). La ripetizione di quello che diventa una semi versetto anticipatorio nelle laisses capfinidas della parte anonima crea una notevole tensione tra i passaggi. L'effetto è simile a quello di un ritornello, che aiuta a segnare il passaggio da un momento all'altro. La ripetizione è però anche come un balbettio sulla pagina, che crea una sensazione prima di arresto, poi di movimento in avanti. Ciò è particolarmente vero per l'ultima laisse della Canso, la sua ultima semitrasparente, e il senso di urgenza che essa genera. Inizia con una descrizione del coms joves che guidano i preparativi per difendere la città «contra l'orgolh de Fransa» (contro l'arroganza della Francia, 213.120; 214.1), e termina con una preghiera:
Mas la Verges Maria lor en sira guirens,
Que segon la dreitura repren los falhimens,
Per que la sanc benigna no·s sia espandens.
Car sent Cernis los guida, que non sian temens,
Que Dieus e dreitz e forsa e·l coms joves e sens
Lor defendra Tholoza! Amen. (214.131–36)
La Vergine Maria li terrà al sicuro perché,
secondo ciò che è giusto, rimprovera i torti
affinché non venga sparso sangue innocente. Non devono avere paura
perché San Sernin li guiderà.
Che Dio, la giustizia e la forza, il giovane conte e i santi
difendano Tolosa per loro! Amen.
La laisse nel suo insieme dipinge un quadro pieno di speranza: i baroni e i cavalieri dormono nelle loro armature e il poeta anonimo coglie questa ultima occasione per elencare i nomi dei combattenti di rango presenti. Sebbene il poeta affermi con sicurezza che i baroni hanno garantito la difesa della città, non nasconde i pericoli che corrono. Il “cardenal de Roma” desidera la distruzione della città e dei suoi abitanti fino all'ultimo, “que tuit prengan martiri en las flamas ardens” (che tutti soffrano come martiri nelle fiamme ardenti, 214.130). Eppure, la preghiera che conclude il poema si rivolge al tempo futuro, guardando al futuro anche mentre l'esercito crociato si avvicina. Forse ancora più importante, se la Canso continuasse secondo la forma stabilita dal poeta Anonimo, la mezza riga “Lor defendra Tholoza!” sarebbe l'inizio di una teorica laisse successiva. L'esortazione a difendere Tolosa risuona quindi verso un futuro ipotetico: Tolosa quondam et futurus, una volta e futura.”
La Canso, in tal guisa esce dalla storia per entrare nella leggenda e nella profezia prospettando un futuro migliore per le genti occitane.
Come notava Robert Lafont nel suo saggio “Sur l’aliénation occitane” uscito sulla prestigiosa rivista politica “LE FEDERALISTE” nel 1967:
“In un momento in cui la Francia stava sviluppando il suo primo nazionalismo, gli occitani si battevano contro di esso in nome di valori progressisti. Questo è il senso de La Chanson de la Croisade”.
Con queste parole, anche questa parte del mio viaggio, onirico e quasi psichedelico, nei Paesi Catari volge al termine, ma molto indegnamente vorrei anch’io dedicare ai miei pazienti e gentili lettori un invito in poesia.
Tu, che sin qui hai resistito a questa lettura tediosa,
quando pellegrino raggiungerai la Città Rosa,
allunga il tuo cammino a Massabielle e
alla Cerulea Signora offri bianca una rosa!