testata3

OPINIONI

L'ENIGMA DEL CAMBIAMENTO

L'ENIGMA DEL CAMBIAMENTO

L'Enigma del cambiamento: perché il vero viaggio inizia davanti allo specchio

Nel labirinto della modernità, dove ogni scorciatoia promette rivoluzioni istantanee e ogni influencer millanta formule per l’autoperfezione, si nasconde una verità scomoda: il cambiamento autentico non si compra, non si imita, non si scarica.


È un processo che richiede il coraggio di fermarsi, di guardarsi negli occhi — e di accettare che il nemico più insidioso, spesso, risiede nello stesso riflesso che ci osserva.
La società contemporanea, avvolta nel mito del progresso accelerato, ha trasformato il desiderio di trasformazione in un mercato globale.
Corsi motivazionali, app per la meditazione, diete miracolose, un’industria da miliardi costruita sull’illusione che basti un click per diventare chi vorremmo essere.
Eppure, dietro questa frenesia di soluzioni preconfezionate, si agita un paradosso.
Quanto più cerchiamo di modificare il mondo esterno, tanto più sfugge la consapevolezza che ogni atto trasformativo è, prima di tutto, un negoziato con le ombre della nostra psiche.
Il cervello umano resiste al cambiamento non per pigrizia, ma per un istinto di sopravvivenza arcaico.
Le sinapsi consolidano abitudini come sentieri neurali, rendendo ogni deviazione un atto di ribellione biologica.
È qui che si annida il dramma esistenziale, per rinnovarsi, bisogna prima sgretolare il cemento dell’abitudine, affrontando il vuoto vertiginoso del “non ancora”.
Filosofi come Kierkegaard lo chiamavano “l’angoscia della libertà”, psicanalisti come Jung parlavano di incontro con l’Ombra.
Oggi, nelle parole di uno psichiatra di Harvard che preferisce restare anonimo, “il vero self-help è un atto di tradimento verso la versione di sé che abbiamo imbalsamato per compiacere gli altri”.
Ma come distinguere l’auto-riflessione autentica dal narcisismo dilagante dell’era digitale?
La risposta, sta nel passaggio dalla colpa alla responsabilità.
Puntare il dito verso l’esterno — governi, sistemi, genitori — offre un sollievo effimero, ma congela la crescita in una posa da vittima.
Al contrario, riconoscere la propria complicità nel disagio esistenziale scatena un terremoto interiore.
È ciò che lo scrittore giapponese Haruki Murakami descrivein Kafka sulla spiaggia: “Quando attraversi una tempesta, devi diventare la tempesta stessa”.
Esempi storici abbondano. Nelson Mandela, durante i 27 anni di prigionia, trasformò l’odio in una strategia di riconciliazione solo dopo aver ammesso il proprio risentimento.
Frida Kahlo dipinse capolavori di dolore sublimato non negando la sofferenza, ma immergendovisi fino a diventarne sacerdotessa.
Persino nella Silicon Valley, epicentro del culto della disruption, pionieri come Steve Jobs parlavano di “connettere i punti guardando indietro” — metafora di un percorso che richiedeva, prima di tutto, l’onestà di accettare i fallimenti come tappe necessarie.
Il paradosso è che nell’era dell’iperconnessione, dove ogni emozione viene condivisa in tempo reale, l’introspezione genuina è diventata un atto rivoluzionario.
I social media incentivano la costruzione di personalità multiple, frammentate in avatar che compongono un mosaico di desideri inconciliabili.
Questa dissociazione digitale non solo ostacola il cambiamento, ma crea una generazione di “soggetti liquidi”, privi di un centro narrativo coerente.
La soluzione? Imparare a sostare nel disagio, a dialogare con le proprie contraddizioni senza cercare immediato conforto in like o follower.
Forse la lezione più urgente viene dall’arte.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, ogni trasformazione — da Dafne in albero a Narciso in fiore — è sempre conseguenza di un confronto brutale con la realtà.
Il poeta sembra suggerire, mutare forma senza mutare essenza è una condanna.
Ecco perché, oggi più che mai, il cambiamento autentico richiede un ritorno alla lentezza, al silenzio, a quella “solenne solitudine” di cui parlava Leopardi.
Non si tratta di rinchiudersi in torri d’avorio, ma di creare spazi sacri di autoascolto in un mondo che venera il rumore.
Alla fine, la domanda cruciale rimane: siamo disposti a pagare il prezzo della verità?
Perché ogni rivoluzione interiore esige il sacrificio delle certezze comode, delle maschere sociali, delle bugie che ci raccontiamo per sopravvivere.
Come scriveva Elias Canetti, “Nulla avvelena più dell’immobilità forzata”.
Forse, allora, il primo passo non è scalare montagne o cambiare lavoro, ma restare immobili abbastanza da sentire il terremoto che già ci abita.
E decidere, infine, di danzare sulle sue macerie.

powered by social2s

RIFERIMENTI

ngn logo2

Testata totalmente indipendente, di proprietà dell’associazione Libera Stampa e Libera Comunicazione

Sostienici per dare una libera informazione

Donazione con Bonifico Bancario

TAGS POPOLARI

Info Nessun tag trovato.
Image
Image
Image
Image
Image
Image

Ricerca