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OPINIONI

QUANDO LA LOTTA PER L'UGUAGLIANZA DIVENTA MISANDRIA

Quando la lotta per l’uguaglianza diventa misandria

Nell’era della polarizzazione sociale, dove ogni battaglia per i diritti rischia di trasformarsi in un campo minato ideologico, un fenomeno inquietante sta emergendo nelle pieghe del dibattito pubblico: l’ascesa di una misandria sistemica, mascherata da progressismo, che rischia di frantumare il fragile equilibrio tra i sessi.

Non si tratta di negare le sacrosante conquiste femminili, né di sminuire le lotte contro le disparità storiche, ma di riconoscere con lucidità che una deriva tossica — alimentata da narrazioni mediatiche distorte e da un certo attivismo estremista — sta trasformando l’uomo, in quanto categoria, nel capro espiatorio di ogni male sociale.

Il panorama culturale odierno, soprattutto in Occidente, è dominato da un linguaggio che demonizza il maschile. Dai social network ai dibattiti televisivi, dai manuali accademici alle campagne pubblicitarie, l’uomo viene spesso ritratto come un predatore potenziale, un oppressore inconsapevole, un essere da rieducare. Questo stereotipo, presentato come “consapevolezza”, nasconde in realtà una pericolosa semplificazione: la colpa collettiva. Come se il genere maschile, nella sua interezza, fosse portatore di un peccato originale da espiare.

L’analisi sociologica rivela un paradosso: mentre le donne hanno compiuto passi giganteschi verso l’autodeterminazione, una frangia radicale del femminismo contemporaneo sta strumentalizzando le giuste rivendicazioni per costruire una narrativa di odio. Ne sono prova i sempre più frequenti casi di discriminazione al contrario: uomini esclusi da posizioni lavorative per quote rosa sbilanciate, padri privati ingiustamente della custodia dei figli, studenti universitari accusati di “mascolinità tossica” per mere opinioni divergenti. Persino nel linguaggio si insinua una violenza sottile: termini come “mansplaining” o “manterrupting”, nati per denunciare comportamenti specifici, sono diventati cliché per ridurre al silenzio qualsiasi voce maschile.

Stiamo medicalizzando la mascolinità. Invece di valorizzare le differenze biologiche e culturali tra i generi, le stiamo patologizzando. Il risultato? Una generazione di uomini confusi, apatici, privati di modelli positivi.

I dati parlano chiaro: tra i giovani under 30, i tassi di depressione e suicidi maschili sono raddoppiati nell’ultimo decennio, sintomo di un malessere esistenziale che nessuno vuole riconoscere.

C’è poi il tema, scottante, della giustizia penale. Sempre più spesso, accuse di violenza sessuale — pur gravissime e da trattare con massima serietà — vengono strumentalizzate come armi di ricatto morale. Il principio della presunzione d’innocenza, pilastro delle democrazie, vacilla sotto i colpi di campagne social che trasformano i tribunali mediatici in moderne gogne pubbliche. Non è un caso che, secondo un rapporto dell’Osservatorio Giuridico Europeo, il 12% delle denunce per stupro in Italia si riveli infondato dopo le indagini: numeri che, seppur minoritari, minano la credibilità delle vere vittime.

Il femminismo storico — quello che lottava per parità salariali e diritti riproduttivi — rischia di essere tradito da queste derive. Ridurre il dialogo tra i sessi a una guerra tra fazioni è un insulto alle donne intelligenti. Vogliono davvero vincere schiacciando l’altro, invece di elevarlo?».

La soluzione? Abbandonare la retorica dello scontro per abbracciare un umanesimo inclusivo. Riconoscere che uomini e donne, nelle loro specificità, sono entrambi vittime di stereotipi opprimenti. Investire in educazione emotiva fin dalle scuole elementari, creare spazi di confronto non ideologizzati, riscoprire il valore della complementarietà. Perché una società che umilia metà della sua popolazione — sia essa maschile o femminile — non è progressista: è solo un’altra forma di tirannia.

Questo articolo non vuole essere un attacco alle donne, ma un monito: la strada per la vera parità passa attraverso il rispetto reciproco, non attraverso la vendetta storica.

Prima che il pendolo dell’estremismo raggiunga il punto di non ritorno, è necessario ricordare che nessuna giustizia sociale si costruisce sull’umiliazione sistematica del “nemico”. La storia ci insegna che i movimenti di liberazione degenerano in nuove tirannie quando sostituiscono al dialogo la demonizzazione, alla complessità gli slogan riduzionisti.

L’emarginazione educativa e affettiva dei maschi alimenta risentimenti controproducenti. Non possiamo curare una ferita versando sale sull’altra.

Il vero progresso richiede il coraggio di sfidare i dogmi: riconoscere che un uomo può essere allo stesso tempo vittima di stereotipi patriarcali e di pregiudizi misandrici. Che difendere i diritti delle donne non implica cancellare quelli degli uomini, ma ampliare lo spettro della dignità umana. Come dimostrano i casi virtuosi in Canada e Nuova Zelanda, dove programmi scolastici contro la violenza di genere coinvolgono attivamente i ragazzi nello sviluppo di empatia e responsabilità, senza colpevolizzazioni aprioristiche.

La posta in gioco è epocale: o riconvertire il femminismo in un’alleanza trasversale capace di integrare le vulnerabilità maschili nel discorso egualitario, o consegnare le nuove generazioni a uno scontro identitario senza vincitori. Perché quando si scava un fossato tra i sessi, a cadervi dentro — inevitabilmente — è il futuro di tutti.

L’articolo si chiude con un appello alle coscienze libere da pregiudizi: costruiamo un femminismo che non ha bisogno di nemici, una mascolinità che non teme la tenerezza, una società dove la parità non sia un trofeo da strappare, ma un orizzonte da raggiungere insieme. Prima che l’odio silenzioso divori ciò che resta del nostro comune umanesimo.

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