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GEOPOLITICA

TRUMP E PUTIN, LE MONTAGNE RUSSE DELLA PACE

TRUMP E PUTIN, LE MONTAGNE RUSSE DELLA PACE

«La politica è il delicato equilibrio tra ciò che è possibile e ciò che è necessario.» — Henry Kissinger

Le montagne della diplomazia globale non hanno mai smesso di tremare, ma negli ultimi mesi l’altalena delle trattative fra Donald Trump e Vladimir Putin ha assunto il ritmo esatto delle montagne russe: salite improvvise, discese vertiginose, curve brusche e un panorama internazionale che, a ogni svolta, cambia contorni, alleanze e prospettive. Nello scenario teso della guerra in Ucraina, con un Cremlino deciso a recuperare il Donbas «a ogni costo» e una Casa Bianca intenzionata a chiudere il conflitto entro l’anno, l’intreccio fra i due leader ha assunto una dimensione quasi teatrale, sospesa fra competizione, seduzione politica e calcolo strategico.

Le recenti dichiarazioni di Putin a New Delhi hanno solo confermato il quadro: i negoziati con gli Stati Uniti sono «complessi», «ardui come scalare una montagna ghiacciata». Eppure, ha precisato, «Trump ci sta sinceramente provando». Parole misurate, quasi sorprendenti nella loro benevolenza, come se la Russia stessa volesse riconoscere un margine di fiducia a un interlocutore con cui i rapporti oscillano da anni fra diffidenze e aperture improvvise. Non è un mistero che Trump stia tentando di ridisegnare le relazioni con Mosca secondo un paradigma totalmente diverso da quello seguito dai suoi predecessori: meno pressione, più dialogo, un equilibrio di potere spostato dalla logica del contenimento a quella della transazione.

In questo clima, il nodo del Donbas rimane il punto più incandescente del dossier. Putin ha ribadito, ancora una volta, che la Russia «libererà» la regione se Kiev non ritirerà le sue forze, lasciando intendere che per Mosca il controllo di quell’area non è solo un obiettivo strategico, ma un simbolo, un capitolo identitario e irriducibile della sua narrativa geopolitica. Dietro la fermezza, tuttavia, si intravede anche la volontà di costruire un tavolo negoziale che consenta a Mosca di ottenere riconoscimenti concreti senza arrivare allo scontro frontale con Washington.

Ed è qui che entra in scena l’elemento più controverso delle ultime settimane: il gesto di Trump verso Lukoil, interpretato da molti analisti come un segnale di distensione. L’allentamento di alcune sanzioni — spiegato dalla Casa Bianca come “tecnico” e finalizzato a facilitare determinati flussi energetici utili a stabilizzare il mercato globale — è stato immediatamente percepito dal Cremlino come una prova di amicizia politica. Putin l’ha accolto con una soddisfazione prudente ma evidente, sottolineando come «certi gesti costruiscano fiducia, più di mille parole».

Il gesto di Trump, per quanto simbolico, ha un impatto notevole, perché spezza la linearità della politica sanzionatoria degli ultimi dieci anni. È una mossa che, nell’arco di poche ore, ha trasformato l’umore diplomatico: a Mosca si è parlato di “apertura storica”, a Bruxelles di “svolta rischiosa”, a Kiev di “preoccupante deviazione”. L’Ucraina non può permettersi ambiguità: Zelensky — volato negli Stati Uniti per ottenere un report completo su quanto discusso fra Washington e Mosca — ha ribadito che «solo una pace dignitosa può garantire vera sicurezza». Una frase che suona quasi come un avvertimento ai partner occidentali: la difesa della sovranità ucraina non può essere sacrificata sull’altare del compromesso.

Eppure è proprio il compromesso la parola che aleggia nell’aria, nonostante le retoriche ufficiali. Trump vuole un risultato rapido, un “accordo” presentabile entro la fine del suo mandato, e ciò significa che sta cercando margini negoziali reali, non solo dichiarazioni di principio. Putin, dal canto suo, è convinto che il tempo giochi a suo favore, ma non può più permettersi un conflitto infinito: la pressione interna esiste, la tenuta economica non è illimitata e i fronti aperti — militari, energetici e diplomatici — iniziano a pesare. Entrambi hanno quindi interesse a trovare almeno uno spiraglio di convergenza, anche minimo, che possa trasformarsi in un percorso di de-escalation controllata.

Le trattative, di conseguenza, procedono come un convoglio che avanza su binari diseguali: frenate improvvise, accelerazioni inattese, silenzi che valgono più delle dichiarazioni ufficiali. Da un lato, Putin insiste sul fatto che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sia una minaccia diretta alla sicurezza russa: un punto che non cambierà. Dall’altro, Trump mira a convincere Kiev a valutare un “nuovo assetto di sicurezza”, senza però apparire come colui che sacrifica un alleato. È un equilibrio fragile, una danza di proporzioni e di simboli in cui ciò che non viene detto pesa spesso più di ciò che viene dichiarato.

Intorno a questa partita si muovono altre pedine fondamentali. L’India di Modi, con cui Putin ha intensificato il dialogo, rappresenta un attore cruciale nella “geometria variabile” della diplomazia del XXI secolo. La discussione sui sistemi missilistici S-400, sulle collaborazioni militari e sulla revisione dei caccia Su-30 aggiunge un elemento di profondità all’intero mosaico strategico. Non è un caso che Putin, nel sottolineare la qualità del rapporto con Nuova Delhi, continui a presentare la Russia come potenza affidabile per i partner asiatici: un messaggio indiretto agli Stati Uniti, ma anche all’Europa.

Nel frattempo, sul versante occidentale, le reazioni rimangono caute. Le cancellerie europee temono che una pace negoziata solo fra Washington e Mosca possa marginalizzare l’Ue, riducendola a spettatrice di un nuovo ordine costruito altrove. Bruxelles ricorda che «nessuna soluzione durevole può esistere senza l’Europa», un’affermazione corretta nei principi ma sempre più fragile nella pratica diplomatica di questi mesi.

Mentre la geopolitica oscilla, Putin si concede persino digressioni filosofiche, come quella — destinata a diventare quasi virale — sull’immortalità e sul futuro delle biotecnologie. «Tutto ha una fine, solo Dio è immortale», ha detto rispondendo a Xi Jinping. Una frase che, letta nel contesto, suona come un paradossale memento mori consegnato a un mondo che, fra guerre e rivoluzioni tecnologiche, rischia di dimenticare la precarietà umana.

La guerra in Ucraina resta il cuore pulsante di tutte queste tensioni. Zelensky ribadisce che il sostegno occidentale è cruciale e lo sarà ancora nei mesi a venire. Kiev vive sospesa tra resistenza e negoziato, fra una realtà militare dura e una prospettiva diplomatica piena di incognite. Ogni mossa di Trump o di Putin, ogni parola scelta o omessa, ogni apertura o sanzione sospesa può modificare gli equilibri del campo di battaglia e dell’arena politica.

In questo scenario nulla è statico. Ogni elemento si muove, scivola, accelera. Proprio come su una giostra impazzita, su quelle montagne russe della storia che tornano ciclicamente a ricordarci quanto la pace sia fragile, complessa, reversibile. E quanto sia difficile, oggi più che mai, distinguere un gesto di amicizia da un calcolo strategico, una distensione da una trappola, un’apertura da una crepa.

Forse è per questo che, nonostante tutto, il mondo continua a guardare alle trattative fra Trump e Putin come al possibile inizio di una nuova fase. Non una soluzione definitiva, non una riconciliazione, non un accordo storico. Ma un primo movimento, un segnale, un margine di respiro. Perché anche le montagne russe, alla fine, rallentano. E sebbene il percorso sia tortuoso, a un certo punto il convoglio si ferma.

Resta da capire dove. E con quali conseguenze per l’Europa, per l’Ucraina, per la Russia, per gli Stati Uniti e per quell’ordine mondiale che da anni è diventato liquido, imprevedibile, mutevole. Ma una cosa è certa: la diplomazia del 2025 non procede in linea retta. Corre, salta, devia. Sulle sue montagne — e sui suoi abissi — si giocano destini che nessuno può più permettersi di ignorare.

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