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GEOPOLITICA

USA E ISRAELE, E' IN ARRIVO UN TERREMOTO MEDIATICO?

USA E ISRAELE, E' IN ARRIVO UN TERREMOTO MEDIATICO?

Un terremoto mediatico ha appena colpito l’America, e ha colpito Israele più duramente di qualsiasi altra cosa prima. Tucker Carlson,il conduttore conservatore più influente degli Stati Uniti, un uomo che Israele considerava un alleato incrollabile, li ha appena attaccati con una franchezza che nessun personaggio televisivo americano avrebbe mai osato.

In diretta, davanti a milioni di persone, ha sganciato la bomba: “Non esiste il ‘popolo eletto di Dio’. Dio non sceglie gli assassini di bambini. Questa è eresia: questi sono criminali e ladri”. Non era un commento... Questa era una dichiarazione di guerra all’intera narrazione israeliana. E non si è fermato qui.

Carlson ha smascherato la rabbia che ribolliva in America, aggiungendo: “350 milioni di americani stanno lottando per sopravvivere, e noi mandiamo 26 miliardi di dollari a un paese di cui la maggior parte degli americani non sa nemmeno nominare la capitale”.

Quel video ha raggiunto 48 milioni di visualizzazioni in 9 ore, e un sondaggio della CNN ha mostrato in seguito che il 62% degli americani è d’accordo con lui. Il sostegno a Israele sta crollando all’interno degli Stati Uniti stessi.

Poi è arrivato il colpo di scena: un messaggio diretto a Trump: “Ho sostenuto Trump... Ma concentrare i soldi, l’energia e la politica estera americana su Israele è un tradimento delle sue promesse”.

La conseguenza è che sta montando un massiccio cambiamento dell’opinione pubblica contro Israele. I conservatori rompono i ranghi, l’establishment politico è nel panico ed Israele perde il suo più forte scudo mediatico.

Queste asserzioni sono di ormai di dominio pubblico. Per la prima volta da decenni, gli americani stanno apertamente mettendo in discussione l’intero rapporto con Israele, e non hanno intenzione di fare marcia indietro. Un’analisi molto forte che coglie uno dei nodi più controversi e al tempo stesso più esplosivi dell’attualità: le critiche radicali al ruolo di Stato di Israele e al patto di supporto con United States mosse da Tucker Carlson, e le implicazioni più ampie di tale volte-faccia.

Carlson ha effettivamente pronunciato affermazioni molto dure contro Israele e il sionismo, definendo l’idea di un “popolo eletto da Dio” come una giustificazione per violenze che considera “crimini”. Il suo discorso ha attirato grande attenzione: viene definito da alcuni media come un momento di “virata antisionista” nel panorama conservatore USA.

Effettivamente, negli Stati Uniti è in atto un cambiamento nell’opinione pubblica verso la guerra in Gaza e l’alleanza con Israele: sondaggi recenti mostrano una crescente percentuale di cittadini che si oppone o quantomeno mette in discussione il sostegno militare e politico a Israele. Si osserva anche una frattura crescente all’interno del campo conservatore e repubblicano: per la prima volta figure tradizionalmente vicine a Israele criticano apertamente il sostegno americano ritenuto eccessivo o moralmente insostenibile.

Certamente è un’uscita tanto impattante quanto inaspettata da un volto conservatore come Carlson, che è parte di un processo più ampio di riconsiderazione dell’alleanza USA-Israele. Cosa che resta da verificare o che va presa con cautela.

Va peraltro verificato anche ciò che concerne “48 milioni di visualizzazioni in 9 ore” del video, o il “62% di americani d’accordo”, alcuni reportage riportano un calo generale del sostegno a Israele, ma non collegano direttamente il dato alla sua dichiarazione.

E’ altamente probabile che il sentimento pubblico stia cambiando, ma non è possibile affermare con certezza che “Carlson ha causato la caduta del sostegno a Israele”. Piuttosto, le sue parole sono un sintomo — e forse un catalizzatore — di una tendenza già in atto, fatta di critiche diffuse per la guerra a Gaza, le sue vittime civili e la spesa americana all’estero.

Appare troppo semplice dire “questa è una dichiarazione di guerra all’intera narrazione israeliana” è metaforico e vale politicamente per alcuni soggetti pubblici, ma ignora la complessità delle opinioni: molti americani (e non solo) continuano a sostenere Israele, o distinguono tra rifiuto delle attuali politiche e appoggio allo Stato/popolo.

Indubbiamente si è di fronte a una frattura culturale e morale: quando un commentatore conservatore di peso dice che certi argomenti religiosi o teologici — “popolo eletto” non possono giustificare massacri, smantella uno degli argomenti tradizionali che rafforzavano l’alleanza tra parte del cristianesimo americano e Israele.

Questo può avere effetti duraturi sul modo in cui la guerra viene legittimata negli USA. Cambia la dinamica politica interna: la destra americana non è più monolitica nelle sue posizioni su Israele e Medio Oriente. Questo potrebbe rendere più difficile per future amministrazioni anche se repubblicane mantenere un sostegno automatico o illimitato a Israele.

Carlson non incarna solo odio o antisemitismo (anche se alcuni gli muovono accuse del genere), ma incarna un istinto “America First” esteso: per molti, gli interessi interni, il benessere economico, le disuguaglianze sociali contano più di legami storici, religiosi o ideologici con altri stati.

Per di più  trasformare una critica politica o morale in un attacco totale contro uno Stato significa rischiare che si intrecci con sentimenti di antisemitismo, pregiudizi, e divisioni civili — specialmente in un Paese tanto complesso come gli USA.

Se la più grande potenza mondiale riduce il suo supporto incondizionato, lo status internazionale e diplomatico di Israele potrebbe cambiare, influenzando equilibri in Medio Oriente, pressione diplomatica, e strategie di conflitto e negoziazione. Riguardo tutto questo le parole di Carlson riflettono il calo del sostegno americano, la rottura del consenso interno non tanto una vittoria per una parte o per l’altra, quanto un momento di verità necessario.

Quando una narrazione diventa immunitaria, cioè protetta da critiche grazie a dogmi religiosi, interessi economici e egemonia mediatica si cristallizza in un potere incontrollato. Mettere in discussione quel consenso non significa automaticamente “essere contro” un popolo, ma significa chiedere che le azioni e le politiche vengano valutate per ciò che sono: per come operano, per le conseguenze reali, non per le leggende o le promesse.

Credo che la cosa più importante non sia “schierarsi” subito, ma mantenere il dubbio, la responsabilità morale, l’attenzione alle vittime reali. E soprattutto: non accettare che la guerra e il potere che l’accompagna venga giustificata da antiche teologie o da legami geopolitici astratti. Perché, alla fine, se l’umanità di un popolo si misura da quanta dignità tributa ai più deboli, ogni scelta anche quella di un commentatore televisivo conta.

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