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GEOPOLITICA

IL MYAMAR E L'EREDITA' DI UNA PRINCIPESSA

IL MYAMAR E L'EREDITA' DI UNA PRINCIPESSA

Il Myanmar ex Birmania e l’eredità silenziosa di una principessa. Memoria e potere geopolitico nel cuore dell’Asia

Ci sono storie che si incontrano quasi per caso, ma che rimangono impresse come segni di un tempo sospeso.

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente June Rose Yadana Bellamy e suo figlio Michele Postiglione Bellamy: sono stati per molti anni i miei vicini di casa, dai racconti di June ho appreso una delle vicende più straordinarie e dimenticate del Novecento.

June non era solo una donna elegante e ironica: era una Principessa Birmana, l’ultima discendente della dinastia Konbaung, educata tra Asia e Occidente, sopravvissuta ai bombardamenti, a un secondo matrimonio con il dittatore della sua nazione, una unione documentata da tutti i giornali dell’epoca, come l’Europeo, ma finito con un colpo di Stato e un destino che l’ha condotta da Rangoon a Firenze.

Una donna capace di attraversare la storia mondiale senza mai perdere la grazia di chi sa trasformare la tragedia in eredità morale.

Oggi, mentre il Myanmar, la sua amata Birmania, sprofonda in una delle crisi più complesse del nostro tempo, quella memoria familiare assume un valore geopolitico.

È il racconto di un Paese sospeso tra passato monarchico e presente militare, tra identità e disgregazione, tra Oriente e Occidente.

Un Paese che continua a interrogare il mondo, anche se il mondo sembra averlo dimenticato.

Dal colpo di Stato del 2021, che ha rovesciato il governo civile di Aung San Suu Kyi, il Myanmar è precipitato in una guerra civile a bassa intensità ma ad altissimo impatto umanitario.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre 3,5 milioni di persone sono sfollate internamente, e più di 19 milioni necessitano di assistenza umanitaria.

L’economia è in caduta libera: inflazione oltre il 25%, moneta svalutata, disoccupazione crescente.

Le aree rurali, un tempo cuore produttivo del Paese, sono oggi dominate da milizie etniche o gruppi di resistenza armata, mentre le città vivono sotto il controllo del Tatmadaw, l’esercito birmano.

Ma il conflitto non è solo interno.

Il Myanmar è diventato il nuovo crocevia di interessi globali:

La Cina sostiene la giunta per proteggere i propri corridoi infrastrutturali, in particolare il progetto del China–Myanmar Economic Corridor, vitale per l’accesso cinese all’Oceano Indiano.

L’India, invece, si muove in equilibrio sottile: teme l’instabilità ai confini del nord-est, ma non vuole abbandonare completamente il Paese all’influenza di Pechino.

La Russia ha intensificato la cooperazione militare, trovando nel Myanmar un alleato regionale e un mercato per la propria industria bellica.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea mantengono sanzioni mirate, ma il loro peso geopolitico nel Sud-Est asiatico si è progressivamente ridotto.

Il risultato è un mosaico geopolitico instabile, dove il Myanmar diventa un campo di prova per il confronto tra potenze, più che una nazione in rinascita.

In questo scenario, Michele Postiglione Bellamy, porta avanti la memoria di sua madre in modo diverso: non con la nostalgia del passato, ma con un impegno civile che unisce cultura e testimonianza.

Attraverso i social e le sue iniziative simboliche, sostiene la Silent Revolution dei birmani in esilio, amplificando la voce di chi non può più parlare.

«Gli eroi non hanno età», ha detto una volta una frase semplice, ma che in un Paese in cui le notizie arrivano filtrate o censurate, diventa un atto di resistenza.

June aveva scritto nella sua autobiografia Le mie nove vite:

“Essere nati in Birmania significa portare addosso il peso e la grazia di una terra che non dimentica.”

Parole che oggi risuonano come un monito.

Perché dimenticare il Myanmar significa accettare che la violenza e la povertà diventino il linguaggio della geopolitica.

La posizione geografica del Myanmar rende la nazione imprescindibile nel calcolo strategico dell’Indo-Pacifico.

È il ponte terrestre tra l’Asia meridionale e il Mar Cinese Meridionale, il passaggio che collega la Cina ai porti del Golfo del Bengala.

Controllare il Myanmar significa accedere a rotte commerciali e marittime che valgono miliardi, oltre a risorse naturali come gas, giada, rame, terre rare.

Non sorprende quindi che il Paese sia diventato oggetto di una competizione silenziosa tra potenze regionali: una “guerra fredda asiatica” combattuta più con infrastrutture, crediti e corridoi logistici che con armi convenzionali.

Eppure, dietro questa scacchiera, ci sono volti e storie: quelli di milioni di civili tra cui bambini che vivono senza luce, senza acqua, senza scuole ma di cui nessuno parla. 

Un’intera generazione rischia di crescere senza istruzione né futuro, mentre le potenze si contendono la posizione del Paese come se fosse solo un nodo commerciale. 

Conoscendo June e Michele, ho imparato che la nobiltà non sta nei titoli, ma nella memoria e nel coraggio.

Il Myanmar non è soltanto una crisi lontana.

È un banco di prova per l’equilibrio asiatico, un laboratorio di potere e vulnerabilità, dove il passato coloniale incontra le nuove logiche multipolari del XXI secolo.

Eppure, nel suo dolore, conserva la forza di un popolo che non ha mai smesso di combattere con speranza. 

Nel tramonto geopolitico di un Paese dimenticato, la storia di June Rose Bellamy e di suo figlio Michele resta come una bussola morale.

È il ricordo di una Birmania che credeva nella libertà, nella cultura e nella dignità umana.

Un’eredità che oggi, tra il frastuono delle guerre e dei blocchi contrapposti, ricorda al mondo che anche un piccolo Paese può essere specchio del destino globale.

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