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CULTURA

ALESSANDRO ANTONELLI MIRARE ALTO

ALESSANDRO ANTONELLI MIRARE ALTO

di Aldo A. Mola

Imparare l'Arte. La sua opera più famosa, la Mole di Torino, svetta tra dodici stelle nella monetina da due centesimi di euro, coniata dalla Zecca dello Stato dal 2002.

In primo tempo quell’effigie fu erroneamente riprodotta su un centinaio di monete da un centesimo, ciascuna delle quale oggi vale una fortuna, come il leggendario francobollo “Gronchi rosa”. Leggerissima, quasi volatile, la moneta da due centesimi circola ancora. La dànno “in resto” panettieri e banchi del mercato, memori che “venti soldi fanno una lira”. Però non viene più coniata. Più la spesa che la resa. Fuori uso, tra qualche decennio anch’essa sarà ambita dai numismatici. Questa vicenda è, a suo modo, specchio della lunga vita di Alessandro Antonelli (Ghemme, 14 luglio 1798-Torino, 18 ottobre 1888), asceso dall'inquietante torrente Strego alle Stelle. Un successo, passo dopo passo. Progetto dopo progetto. Opere avviate e realizzate. Circondate dallo stupore. Plaudite. Ma non tutte portate a termine.
Antonelli insegnò a elevarsi verso il cielo. Si sa che questo è inarrivabile, come fata morgana. Più ci si avvicina, più si allontana. Forse a quel modo ci esorta a occuparci meglio della «aiuola che ci fa tanto feroci», per dirla con Dante. Antonelli lo sperimentò. Celebre architetto e urbanista di prim'ordine, capì presto che per contare l'Artista deve fare i conti con il Potere. Da Milano, ove studiò all'Accademia di Brera, si trasferì a Torino. Vincitore a trent'anni del “Prix de Rome”, completò la sua formazione con cinque anni nella Città Eterna. Ne rimase abbagliato. Roma era ed è tutto. È la Storia. I Papi dell'epoca miravano a far dimenticare l'età francese. Napoleone I, che non vi mise mai piede, aveva nominato Re di Roma l'“Aiglon”, il figlio avuto da Maria Luisa d'Asburgo, e aveva fatto dipingere le proprie imprese nel Palazzo dei Papi, il Quirinale. Anche per lui Roma era un simbolo: ma la retrocesse a seconda città dell'Impero. La prima era Parigi.
Nel 1825 Leone XII (1823-1829) indisse il Giubileo. Riedificò San Paolo fuori le Mura, distrutta da un incendio, e tolse le opere di Galileo dall'indice dei libri proibiti. Il suo successore, Pio VIII (1829-1830) riconobbe re di Francia Luigi Filippo d'Orléans, dopo la cacciata di Carlo X, ultimo sovrano consacrato con l'“unzione” con olio delle Sacre Ampolle, e combatté strenuamente le società segrete. Dall'ascesa al Sacro Soglio, Gregorio XVI (1831-1846) chiamò gli austriaci per reprimere le insorgenze liberali e condannò non solo carbonari e massoni, scomunicati dal 1738, ma anche le tendenze democratiche sorgenti tra i cattolici in Francia (con Felicité de Lamennais) e in Belgio. Anch'egli, comunque, promosse le arti, fondando il Museo Gregoriano-Lateranense. Fece anche di più: condannò severamente il mercato degli schiavi praticato dagli anglo-americani e da altri Stati celebrati come liberali e progressisti.
In quella Roma in bilico tra le diverse Età, indigesta a Giacomo Leopardi, Alessandro Antonelli studiò e strinse amicizia con artisti affermati. Mirò e rimirò. Colse l'anelito verso l'Eternità.

Tra arte e politica
Tornato nel Piemonte sabaudo, insegnò vent'anni all'Accademia Albertina, fiorente con Carlo Felice (re dal 1821 al 183, ultimo del suo ramo) e potenziata ulteriormente da Carlo Alberto di Savoia-Carignano (1831-1849), antico conte dell'impero napoleonico, di formazione europea, sovrano prudente, consapevole che cultura e scienza erano le premesse per restituire al regno di Sardegna sicurezza e prestigio europeo. Importava quel che i torinesi pensassero passeggiando in via Po, piazza Castello, piazza San Carlo. Ma per lui ancor più contava quel che del Piemonte si pensava a Parigi, Bruxelles, Londra. Perciò, dall'inizio degli Anni Quaranta, consentì tacitamente il rientro di tanti liberal-costituzionali dall'esilio al quale erano stati costretti nella repressione delle cospirazioni mazziniane, crollate con la fallimentare “invasione” della Savoia e l'insorgenza a Genova, ove Giuseppe Garibaldi si trovò solo soletto all'appuntamento con i congiurati e dovette riparare in Francia inseguito da condanna alla pena capitale. Rientrò nel 1848 per mettersi a servizio del re.
Nei quattro anni trascorsi negli uffici tecnici del demanio a Torino, Alessandro Antonelli coltivò amicizie tra le quinte di chi decideva: aristocratici a servizio dello Stato, borghesi affermati ed ecclesiastici. Ne comprese il cifrario e assecondò il movimento profondo che preparava il regno sabaudo ad assumere la guida della guerra contro l'impero d'Austria. Alla vigilia del Quarantotto metà delle ferrovie dell'intera Italia erano concentrate fra Piemonte e Liguria. Ne hanno scritto Marco Albera e Giorgio Enrico Cavallo in “L'altro Risorgimento. Cronache dal traforo del Fréjus” (Cento studi Piemontesi). Torino puntava le sue carte su istruzione elementare, sanità, produzione manifatturiera, rete viaria, potenziamento dei porti (anzitutto La Spezia), con speciale attenzione per lo strumento militare, assecondato dalla promozione dell'educazione fisica, propiziata con l'istituzione di apposite Scuole con insegnanti prestigiosi, chiamati persino dall'estero.
La Corona aveva anche bisogno di opere monumentali nuove o debitamente restaurate, capaci di suggestionare chi arrivava a Torino dagli altri Stati italiani o da Oltralpe. Antonelli percepì il fermento che in pochi anni si manifestò con il successo del presbìtero neoguelfo Vincenzo Gioberti, forzatamente esule, autore del “Primato morale e civile degli italiani” (1843), con il conferimento dei diritti civili e politici ai valdesi e agli israeliti e con la promulgazione dello Statuto (1848).
Quando, con le regie patenti del novembre 1847, Carlo Alberto introdusse l'elettività dei consigli comunali e divisionali (cioè provinciali), Antonelli fu pronto a scendere nell'agone dei consessi amministrativi. Si candidò e fu eletto al consiglio comunale di Torino e a quello divisionale di Novara.

Antonelli deputato
L'impegno nella vita politica è tra le pagine meno note della sua lunga e ricca biografia. Merita memoria. Antonelli fu eletto deputato il 20 marzo 1849 nel VII collegio elettorale di Torino, che contava appena 80 elettori. Alle prime elezioni, il 27 aprile 1848, l'avvocato Giovanni Giacomo Prever vi era prevalso con 40 preferenze su Benedetto Trompeo e Benedetto Bona, che ne ottennero 9 ciascuno. A differenza dei primi cinque collegi della capitale, il VI e il VII avevano un numero esiguo di elettori. Il collegio Torino I (il più ambito e disputato: fu quello di Cavour) ne contava 598; il II (che elesse Cesare Balbo e poi Giorgio Pallavicino Trivulzio) 606. Però in quelli “piccoli” la percentuale dei votanti risultò più elevata rispetto agli altri. Del VI si sa poco perché i verbali della prima elezione sono andati persi. Nel VII gli elettori chiamati alle urne il 22 gennaio 1849 per dar vita alla II legislatura erano 130. Al seggio ne andarono 89. Una percentuale assai elevata per l’epoca.
Alla prima elezione della Camera, il 27 aprile 1848, due mesi dopo la promulgazione dello Statuto e mentre il regno era in guerra contro l'impero d'Austria, il cinquantenne Antonelli era personalità già affermata per le molte e prestigiose opere realizzate, in corso o progettate. Nessuno però pensò a lui come possibile membro della “Subalpina”, formata da 222 deputati, comprendenti i 18 componenti votati a Parma e a Piacenza, che, cacciato il duca, avevano dichiarato la propria dedizione la corona sabauda.
Al voto gli aventi diritto andarono sulla base della legge del 17 marzo 1848, n. 729, integrata dal regio decreto del 20 giugno. La Camera aprì i lavori l'8 maggio 1848 a Palazzo Madama. Il principe Eugenio di Savoia, Luogotenente del re, lesse a senatori e a deputati il discorso della corona per conto di Carlo Alberto, che era alla guida dell'armata sarda in guerra contro l'impero d'Austria. Poi i deputati si trasferirono a Palazzo Carignano, ove proseguirono i lavori.

Popoli d'Italia e Nazione
Il Discorso fu improntato a ottimismo e audacia: «La Provvidenza ci chiama ad inaugurare nella nostra patria il regime rappresentativo in una delle epoche più memorande per l'Italia e per l'Europa. Circondati da un fosco orizzonte, ma uniti da mutuo amore, da mutua confidenza tra popolo e principe, avemmo in pace dalla saviezza del Re le riforme e le istituzioni che assicurano al paese la forza e la libertà.» Elencati i successi conseguiti sul campo, il principe proseguì: «In Italia le disgiunte parti tendono ogni giorno ad avvicinarsi, e quindi vi è ferma speranza che un comune accordo leghi i popoli, che la natura destinò a formare una sola Nazione. […] Se avviene che la desiderata fusione con altre parti della Penisola si compia, si promuoveranno quelle mutazioni nella legge che valgano a far grandeggiare i destini nostri, a farci raggiungere quel grado di potenza, a cui pel bene d'Italia la Provvidenza ci vuol condurre.» Era l'annunciò della possibile “unione” italiana. Non confederazione, federazione o lega, né “unificazione” forzata ma “fusione” spontanea: una formula prudente.
Nel Discorso, molto più importante di quanto solitamente percepito, Carlo Alberto distinse i popoli d'Italia dalla Nazione italiana. I due termini non erano sinonimi. La Nazione riecheggiava l'esordio della Rivoluzione dell'Ottantanove, che superò la divisione dei francesi in tre “stati” (aristocrazia, borghesia, clero) e insediò l'Assemblea Nazionale. Nel 1793 la Nazione venne sostituita dal Popolo, depositario della sovranità. Non bastasse, una riforma della costituzione repubblicana riconobbe al popolo il diritto alla rivoluzione contro il governo. Dopo l'età napoleonica e la Restaurazione, il “popolo” continuò a serpeggiare a scapito della “nazione”, termine fatto proprio dai repubblicani, capitanati da Giuseppe Mazzini. Il “Canto degli Italiani” attribuito a Goffredo Mameli non lo evoca mai. Le strofe meno mazziniane e più “giobertiane” (o scolopiche) di quel Canto sono eloquenti: «Noi fummo per secoli/ calpesti, derisi,/perché non siam popolo,/ perché siam divisi/ […]///,Uniamoci, amiamoci,/l'unione e l'amore/ rivelano ai popoli/le vie del Signore”.
Nel Discorso di Carlo Alberto i “popoli d'Italia” sono la realtà presente; la Nazione è il sostrato “naturale”, da far riemergere dopo secoli di dominio straniero attraverso lo Stato e le sue Istituzioni: vero e insostituibile Soggetto della storia che si fa legge.
La Camera elesse presidente Vincenzo Gioberti, al culmine della fama. In mancanza di un'urna, i votanti depositarono le schede in uno dei cappelli a cilindro messi a disposizione per l'occasione.
Aperta sotto i migliori auspici, la legislatura fu travolta dallo sfortunato esito della guerra. Dopo alcuni successi e l'incerto esito della battaglia a Custoza (25 luglio), l'armata sarda ripiegò. Il 9 agosto il generale Salasco convenne l'armistizio con gli austriaci. Nel frattempo al governo presieduto da Cesare Balbo erano subentrati quello guidato dal milanese Gabrio Casati, che si dimise e fu sostituito da Cesare Alfieri di Sostegno. L'11 ottobre si insediò il quarto governo del regno di Sardegna, presieduto da Ettore Perrone di San Martino.
Dopo iniziali sedute caotiche e una lunga pausa, il 16 ottobre la Camera riprese i lavori e registrò la distinzione (che non significa divisione, cioè contrapposizione inconciliabile) tra conservatori (“destra”) e democratici (“sinistra”), comprendenti frange di repubblicani. Il quadro politico non era però solo “piemontese” o “italiano”. La “rivoluzione” iniziata in Francia nel febbraio del Quarantotto e dilagata in varie forme in gran parte d'Europa, era in rotta in molti Paesi. Con l'Allocuzione del 29 aprile Pio IX aveva separato la Chiesa dalla guerra contro l'Austria. Nel timore di eccessi, come quelli registrati a Parigi, ove l'arcivescovo cadde assassinato, Pio IX si trasferì a Gaeta, ospite del re delle Due Sicilie.
Dopo tre proroghe, il 30 dicembre la Camera subalpina venne sciolta. Le elezioni furono convocate per il 15 gennaio 1849 e differite al 22. Al voto andarono circa 38.500 elettori su 80.000 aventi diritto. Nel collegio Torino VII il 22 gennaio Alessandro Antonelli risultò secondo dopo Gioberti, che su 61 votanti ebbe 26 suffragi contro i suoi 24. Il 9 febbraio a Roma Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, e Giuseppe Garibaldi proclamarono la repubblica. Mazzini arrivò molto dopo. A Firenze il 20 si insediò il governo provvisorio dei triumviri. La Camera subalpina discusse se intervenire per restaurare il Granduca, come chiesto da Gioberti. La proposta venne respinta dall'opinione che contava. Il giorno dopo Gioberti si dimise e fu sostituito da Agostino Chiodo.

La II Legislatura fu aperta il 1° febbraio con il discorso della Corona. Incombeva la ripresa della guerra. Carlo Alberto annunciò il progetto di una «Assemblea Costituente del Regno dell'Alta Italia», che era l'obiettivo massimo della guerra contro l'impero d'Austria. «Il governo costituzionale – aggiunse – si aggira sopra due cardini: il Re ed il Popolo. Dal primo nasce l'unità e la forza; dal secondo la libertà e il progresso della Nazione. Io feci e fo la mia parte, ordinando fra i miei popoli libere istituzioni […] Ma per vincere uopo è che all'Esercito concorra la Nazione; e ciò, o Signori, sta in voi, cioè sta in mano di quelle provincie che sono parti così preziose del nostro regno e del nostro cuore […] Prudenza e ardire insieme accoppiati ci salveranno”.
Il 12 marzo Torino denunciò l'armistizio. Ai due parziali successi di Vigevano e di Mortara il 23 marzo seguirono la “brumal Novara”, l'abdicazione immediata di Carlo Alberto, che partì per il Portogallo scordando di firmare la rinuncia al trono, l'incontro a Vignale tra Vittorio Emanuele II e il maresciallo Radetzky, le dimissioni di Gabriele De Launay da presidente del Consiglio e l'avvento del ministero presieduto da Massimo d'Azeglio.
La Camera fu sciolta con regio decreto del 29 marzo. Era durata 58 giorni. Fu la più breve e probabilmente una tra le meno assennate del regno di Sardegna. Non consta che Antonelli vi abbia preso la parola. La sua parabola parlamentare finì lì.
I comizi elettorali vennero convocati il 15 e 22 luglio 1849 in 204 collegi. La III Legislatura fu inaugurata il 30 luglio. Non affrontò con responsabilità concludente la questione fondamentale. La ratifica della pace con l'Austria. Venne sciolta il 20 novembre 1849, dopo 87 sedute. Con il proclama di Moncalieri, scritto da Azeglio e firmato da Vittorio Emanuele II (20 novembre), gli elettori vennero esortati a votare con equilibrio. Lo fecero. Fu l'inizio del raccoglimento e la premessa del “centro-sinistro” di Camillo Cavour e Urbano Rattazzi.
Nelle elezioni del 15 luglio 1849 Antonelli era stato battuto da Carlo Promis, professore di architettura: 54 voti contro130. A conferma che non considerava concluso il suo impegno alla Camera, il 16-17 settembre si ripresentò ancora alle urne ma fu nuovamente sconfitto da Paolo Thaon da Revel (28 suffragi contro 84 al primo turno; 28 contro 93 al secondo). Nelle elezioni del 9 dicembre 1849 ebbe 74 voti contro i 178 andati a Thaon, che fu confermato nel 1853, ma nel 1857 fu sconfitto da Angelo Brofferio, antico cospiratore ed esponente dell'ala democratica della Camera subalpina.
L'Arte di Costruire prevalse sui partiti, etimologicamente divisivi
Antonelli non si ricandidò. Aveva ormai altre mire. La maggior parte dei parlamentari dell'epoca non ha lasciato traccia memorabile. Con le sue Opere, i progetti e la partecipazione costante alla vita pubblica, egli invece svettò e rimane.
Nel 150° dello Scurolo della Beata Panacea da lui realizzato a Ghemme, la sua figura e le sue opere vengono riproposte nella loro complessità. Ad alcuni suoi capolavori, inclusa la Mole di Torino, sono conferite valenze esoteriche. Ferma restando la libertà di pensiero e quindi di attribuzione di significati reconditi anche al di là delle intenzioni del loro Artefice, va ricordato che ogni opera d'arte (e tali sono anche le Storie) vive nell'interpretazione di chi ne fruisce. Va comunque ricordato che alla morte Antonelli ebbe funerali cattolici. Fu sepolto nella tomba di famiglia, al cimitero di Maggiora (Novara).

DIDASCALIA: La Mole di Torino, detta Antonelliana dal nome del suo Artefice fu originariamente concepita quale tempio israelitico. La sua costruzione, iniziata nel 1863, terminò nel 1889. Con i suoi 167 metri e 35 centimetri di altezza è Opera inconfondibile per l'audacia. Venne realizzata con la combinazione di nervature in ferro e mattoni appositamente studiate per conciliare stabilità e leggerezza. Superò nettamente la cupola del San Gaudenzio di Novara (121 metri), altro capolavoro antonelliano, terminata nel 1887.
Inizialmente l'edificio doveva essere alto 47 metri. Antonelli progettò di elevarlo a 113 metri. Quando giunse a 70 metri la comunità ebraica si defilò, considerandone esagerato il costo di realizzazione. La Mole, maestosa e ormai in itinere, fu acquisita dal Comune di Torino che cedette alla comunità ebraica l'area sulla quale sorge la sinagoga. Curiosamente, essa si affaccia su una via intitolata a papa Pio V (1566-1672), al secolo Antonio Michele Ghislieri, nativo di Bosco Marengo (Alessandria), che cacciò gli ebrei dallo stato pontificio, a eccezione di Roma e di Ancona, ove però dovettero chiudersi nei ghetti.
Al di sopra dell'edificio di base, Antonelli aggiunse il Tempietto e su questo la Lanterna (113 metri) e ancora la Guglia, dominata dalla statua del Genio Alato (non un Angelo, come molti credono), in rame sbalzato e dorato, sulla cui testa si alzò un'asta reggente una stella a cinque punte (emblema polisemico). L'Opera fu solennemente “inaugurata” il 10 aprile 1889, pochi mesi dopo la morte di Antonelli. Le ultime fasi della realizzazione furono curate da suo figlio Costanzo e dal suo allievo Crescentino Caselli. Risultò la costruzione in muratura più alta del mondo. La celeberrima Tour Eiffel, come noto, è in ferro.
Molte opere di Antonelli rimasero incompiute. Tra i suoi progetti di urbanista alcuni non ebbero esito, forse per buona sorte. È il caso del Duomo che doveva essere edificato a Torino al posto di Palazzo Madama.
La sua figura e le sue opere sono al centro della Tavola rotonda in programma alle 15:30 di oggi, 12 ottobre 2025, all'Archivio di Stato di Novara (via dell'Archivio, 2) su “L'Arte di costruire nel "genio" di Alessandro Antonelli”, con esposizione di fondi archivistici e di disegni originali provenienti dalla Famiglia Antonelli-Milanoli-Benzi.
L'incontro fa seguito ai due convegni celebrati il 27 settembre a Ghemme e a Novara per iniziativa dell'Istituto di Studi Politici Giorgio Galli (ISPG), della Pro Loco di Novara e del Comune di Ghemme, con interventi di Caterina Zadra, Vinicio Serino (antropologo), Fabio Consonni, Rossana Mondoni (astrologa morpurghiana), Daniele Comero (presidente dell'ISPG), Roberto Tognetti e Gabrio Mambrini. Il convegno di Ghemme fu completato con la visita allo Scurolo della Beata Panacea e alla Parrocchiale di Santa Maria Assunta, altra suggestiva Opera antonelliana.

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