L’articolo di Eugenio Baresi, che pubblichiamo in questo stesso numero del giornale, pone una questione fondamentale riguardante la figura di Gesù come vero dio e vero uomo. Questione fondamentale, in quanto chiave del messaggio soteriologico che ci arriva da Nicea e che riguarda ognuno di noi, indipendentemente dall’essere credenti o meno nell’insieme dell’apparato filosofico e teologico del cristianesimo, cresciuto nel tempo.
La chiave, vista da un non credente, è nel rapporto esistente tra il sostantivo essere e il predicato umano.
Il predicato umano deriva da humus, che significa "terra" o "terreno".
Possiamo declinare quanto è detto di Gesù, il Cristo, in un messaggio riguardante l’essere-umano, un essere che si è calato nella materia. Ogni essere umano è vero essere e vero uomo.
"Cristo" significa "unto" o "consacrato" e deriva dal greco Christós, che a sua volta è una traduzione dell'ebraico Māšīaḥ ("Messia").
Māšīaḥ è nome con cui è indicato nell’Antico Testamento il personaggio oggetto dell’unzione divina; nella tarda letteratura giudaica (ma già sulla base di elementi biblici: cfr. Salmi 2,2) il nome si specializza a indicare l’«unto» per eccellenza, colui che è inviato da Dio come re e salvatore del popolo eletto. Non ogni essere umano è un unto.
Nel 325 il Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino, riunì oltre 250 vescovi per affrontare la crisi dell’arianesimo e approvò il Credo Niceno, definendo la consustanzialità di Cristo con il Padre.
Ario, sacerdote di Alessandria, sosteneva che Gesù Cristo fosse una creatura superiore, ma non pienamente divina. Atanasio e molti altri vescovi difendevano invece la piena uguaglianza tra il Padre e il Figlio. La questione non era solo religiosa: Costantino temeva che il conflitto minasse l’unità dell’Impero.
A Nicea si riunirono più di 250 vescovi da tutto il mondo cristiano. Pur non essendo un teologo, Costantino partecipò ai lavori e spinse per una soluzione condivisa.
Dopo intensi dibattiti, il concilio condannò l’arianesimo e approvò il Credo Niceno, che affermava la consustanzialità (homooúsios) di Cristo con il Padre: “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.
Ora dobbiamo considerare che il cristianesimo è figlio della tradizione ebraica e dello spirito greco.
Nell’ Aula Magna dell’Università di Regensburg, martedì, 12 settembre 2006, Benedetto XVI, fu chiaro in merito.
“A questo punto – ebbe a dire Benedetto XVI - si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per sé stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco”.
In questo incontro, in questa concordanza tra il pensiero greco e la Bibbia ebraica, c’è la chiave soteriologica che oggi Papa Leone XIV riafferma come universale nel suo viaggio a Nicea: il concetto di consustanzialità.
Proviamo ad affrontare la questione dal punto di vista della filosofia nel suo procedere alla definizione della sostanza.
Il termine latino substantia come del resto il termine subjectum è la traduzione del greco hypokeimenon, “ciò che sta sotto”.
Tuttavia nella tradizione filosofica il latino substantia è stato usato piuttosto come traduzione del termine greco ousia, derivante da ousa, participio presente femminile del verbo essere.
Aristotele, nella Metafisica, definisce la sostanza secondo due sensi fondamentali: come sostrato (hypokeimenon) e come essenza (to ti en einai; letteralmente: “che cos’era essere” ciò per cui una certa cosa è ciò che è e non un’altra.
Per quanto riguarda il primo senso Aristotele ritiene che “la forma e il sinolo [siano] sostanza più autenticamente della materia”.
Per quanto riguarda il secondo senso, quello di essenza, Aristotele identifica la sostanza con ciò che è enunciato dalla definizione per genere prossimo e differenza specifica: in questo senso essa non è altro che l’essenza attiva e strutturante.
Il sinolo è l’unione indissolubile di materia e forma che costituisce la sostanza individuale.
Dire che Gesù è vero uomo e vero dio in quanto homooúsios, ossia generato della stessa sostanza del Padre, significa affermare che il Padre, così come il figlio, sono vero uomo e vero dio.
Ma cosa significa?
Significa, a mio modestissimo parere, che Dio, il Tutto, è sostanza materiale (uomo-terra) e sostanza di luce (essere).
Nel pensiero greco la sostanza è sinolo di forma e materia.
Ora, dopo la scoperta dei fisici relativa all’ipersolido di luce, possiamo avanzare l’ipotesi che la sostanza, intesa come sinolo (unione) di forma e materia introdotto da Aristotele possa applicarsi al sinolo di forma e luce.
Se così fosse, avremmo una sostanza materiale e una sostanza di luce. L’essenza attiva e strutturante, che è essa stessa luce, genera un corpo di luce e un corpo terreno.
Dio, inteso come Tutto, è sostanza in quanto essenza attivante e strutturante il sinolo di forma e materia e sinolo di luce e forma.
La materia è un’entità provvista di una propria consistenza fisica ed è dotata di peso e di misura. Nella sua unione con la forma si presenza come sostanza. La sostanza materiale appartiene alla categoria dei fermioni.
La luce, composta di fotoni, non è materia. Un fotone è privo di massa, appartiene alla categoria dei bosoni e, poiché non decade spontaneamente, la sua vita è infinita. Se consideriamo l’anima come corpo di luce, la vita infinita del fotone significa vita infinita dell’anima. Se il ragionamento ha senso, siamo di fronte alla prova scientifica della nostra immortalità.
Cosa sia la luce divina ce lo dice Dante Alighieri, nel 33° Canto del Paradiso.
Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
[…]
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.
Dante fissa lo sguardo nella mente di Dio: visione dell'unità dell'universo. Vede i misteri della trinità e dell'incarnazione; vede nella mente divina tutto l'universo legato in un volume, sostanze, accidenti e i loro rapporti uniti insieme; scorge l'essenza divina che unifica in un tutto armonico le cose create.
La viva luce che Dante osserva è sempre uguale a sé stessa; è la luce eterna che trova fondamento in sé stessa, si comprende da sé e, compresa da sé stessa, arde d'amore.
In questa visione troviamo l’essenza del divino: la luce, quel fuoco primordiale che troviamo in molte tradizioni.
Dante si sofferma ad osservare il secondo cerchio (il Figlio), che sembra il riflesso del primo, e gli pare di vedere al suo interno l'immagine umana, dello stesso colore del cerchio e, tuttavia, perfettamente visibile.
Dante riconosce la propria incapacità a comprendere il mistero dell'incarnazione, fino a quando la sua mente viene colpita da un alto fulgore che, in una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Alla sua immaginazione ora mancano le forze, tuttavia l'amore divino ha ormai placato la sua volontà di conoscere, muovendola come una ruota che si muove in modo regolare e uniforme.
La grandezza del messaggio che ci viene dalla homooúsios, ossia dalla consustanzialità, è che riguarda ogni essere umano, ogni essere divenuto terrestre, il quale, quando il suo corpo mortale cesserà di esistere, rimarrà nella sua eternità di luce, nella sua essenza di luce, che rende una cosa ciò che è, che genera il corpo per quello che è.
Della sopravvivenza al corpo terrestre del corpo di luce è testimone San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi.
“Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c'è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell'uomo di terra, così porteremo l’immagine dell'uomo celeste”.
Da millenni l’essere umano, in tutte le latitudini e longitudini dell’orbe terracqueo, ha pensato sé stesso in modo trinitario: un essere dotato di intelligenza e di coscienza, dotato di un’anima immortale e di un corpo mortale.
Il messaggio universale che viene da Nicea è che l’essere umano è un’essenza di luce che determina il suo corpo terrestre e che rimane tale dopo che il corpo terrestre vede decadere la sua forma.
Per i credenti Gesù, il Cristo, è il figlio di Dio ed è Dio, in quanto è consustanziale con il Padre. Ne deriva che il messaggio niceano implica che tutto quanto ci è riportato dai vangeli in relazione alle parole e alle opere di Gesù è opera di Dio.
Per i non credenti il messaggio niceano è la potente affermazione, in assonanza con millenarie tradizioni, che l’essere umano è luce e terra (figlio del cielo stellato e della Greve – Laminette orfiche), immortale e mortale e che la morte non è altro che la fine del corpo terrestre, non dell’identità essenziale ed è la riaffermazione che il materialismo che ha improntato progressivamente di sé gli ultimi secoli, fino a diventare transumanismo, ha un’alternativa potente: l’essenza immortale di luce.
Papa Leone, con il suo viaggio a Nicea, riporta al centro della riflessione la chiave fondamentale che ci riguarda, credenti o non credenti: l’immortalità dell’essere, mortale in quanto umano, ma immortale in quanto essenza luminosa.








