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SCIENZA E IA

LA METAMORFOSI DEL LAVORO NELL’ERA DIGITALE

LA METAMORFOSI DEL LAVORO NELL’ERA DIGITALE

a cura di Paolo Preianò*

Il mondo del lavoro sta subendo una profonda metamorfosi, trainata dall’intelligenza artificiale, dall’IoT e dall’automazione avanzata.

Se da un lato queste innovazioni promettono maggiore sicurezza, efficienza e benessere, dall’altro sollevano interrogativi cruciali sul rischio di una nuova forma di alienazione, in cui il lavoratore diventa un ingranaggio di un sistema digitale onnipresente. Attraverso un’analisi che spazia dal cinema chapliniano alla filosofia benthamiana, questo contributo esplora il sottile confine tra protezione e controllo, tra ottimizzazione e disumanizzazione. In particolare, si riflette sull’impatto dei wearable device, dell’AI predittiva e della sorveglianza algoritmica, evidenziando come la crescente pervasività della tecnologia possa riprodurre dinamiche panoptiche, in cui il lavoratore è simultaneamente protetto e monitorato.

In un’epoca sospinta da un vorticoso progresso tecnologico, dove l’innovazione digitale e l’intelligenza artificiale ridisegnano i confini del possibile, anche gli spazi tradizionali del lavoro - il cantiere, la fabbrica, l’ufficio - subiscono una trasformazione inevitabile. Rivive alla memoria la geniale e malinconica satira di Tempi Moderni di Chaplin, in cui Charlot, travolto dagli ingranaggi di una catena di montaggio spietata, diviene emblema dell’individuo annichilito da un sistema che ne erode l’autonomia e la dignità. Oggi, è lecito affermarlo senza timore di smentita, non sono più i congegni meccanici a imprigionarci nella loro morsa, bensì l’impercettibile dominio degli algoritmi e l’onnipresenza di sensori e dispositivi IoT. Sebbene il proposito dichiarato sia garantire sicurezza ed efficienza, il pericolo è che il lavoratore si percepisca ancora una volta come un ingranaggio - questa volta immateriale - di un sistema complesso che lo osserva, lo misura e ne regola i ritmi. La sfida cruciale del nostro tempo, già intuita da Chaplin, consiste nell’impedire che il progresso tecnologico, pur nelle sue nobili promesse di salvezza, finisca per snaturare l’essenza umana, trasformando la ricerca della sicurezza in una forma inedita di alienazione: un paradosso in cui il benessere dipende dall’occhio vigile dell’intelligenza artificiale.

L’avvento di dispositivi IoT, wearable technologies, intelligenza artificiale predittiva e cobot (robot collaborativi) risuona come un’opportunità senza precedenti per rendere il lavoro più sicuro, efficiente e persino smart. Così, in ogni angolo del globo, questi strumenti dimostrano di poter prevenire incidenti, alleviare la fatica e persino salvare vite. Eppure, proprio quando la tecnologia sembra dispiegarsi come una panacea, si stagliano interrogativi più profondi, che ci costringono a riflettere sulle nostre azioni e, soprattutto, sulla nostra stessa identità, oltre che sul significato ultimo del nostro operare. Prendiamo l’esempio di un operaio edile dotato di un casco intelligente, capace di avvertirlo in tempo reale di un pericolo imminente, o di un datore di lavoro allertato da un sistema di monitoraggio in caso di uomo a terra. Un’intelligenza artificiale potrebbe analizzare migliaia di parametri strutturali e ambientali, prevedendo cedimenti e attivando allarmi prima che il disastro si compia. L’IoT trasforma così il luogo di lavoro in un ecosistema senziente, in grado di rilevare ogni anomalia. Ma in questo scenario apparentemente idilliaco, sorge una domanda inquietante: dove finisce la sicurezza e dove inizia il controllo?

Il filosofo Jeremy Bentham, nel XVIII secolo, concepì il Panopticon, un carcere circolare in cui un unico sorvegliante poteva osservare tutti i detenuti senza essere visto, la cui forza risiedeva principalmente nella possibilità di essere osservati in ogni momento, generando un’autodisciplina indotta nei singoli detenuti. Oggi, i wearable che registrano battiti cardiaci, movimenti e livelli di stress, o le telecamere intelligenti che analizzano posture e produttività, potrebbero dar vita a un Panopticon digitale. Il lavoratore, sebbene protetto, potrebbe sentirsi simultaneamente scrutato, valutato e giudicato da un sistema impersonale. Ciò solleva un dilemma etico: stiamo costruendo ambienti più sicuri per le persone o per le macchine? Ebbene, se l’efficienza produttiva diventa il fine ultimo, e la sicurezza un mero sottoprodotto, rischiamo di smarrire l’essenza umana al centro del lavoro. La dignità, l’autonomia, il diritto alla privacy si trasformano in nodi gordiani, e la filosofia ci ricorda che una sicurezza autentica non può prescindere dal rispetto intrinseco della persona, oltre che della sua integrità fisica.

L’intelligenza artificiale predittiva, in grado di elaborare immense moli di dati per identificare pattern di rischio, rappresenta una delle frontiere più promettenti ed è senza alcun dubbio una grande opportunità. Si immagini un call center in cui un algoritmo rilevi segnali di burnout in un operatore, incrociando dati su pause, toni vocali e ritmi lavorativi, suggerendo un intervento prima che lo stress degeneri. Una prospettiva affascinante. Eppure, ricordiamo sempre di essere davanti ad un’entità priva di coscienza, che opera su correlazioni statistiche, senza empatia o comprensione del vissuto umano. Se un algoritmo imponesse ritmi insostenibili, o se un falso negativo in un sistema di sicurezza causasse un infortunio, chi ne sarebbe responsabile? L’algoritmo non prova rimorsi, né può essere ritenuto moralmente colpevole. Ecco la sfida epocale che ci attende: come attribuire responsabilità etiche in un’era dominata da decisioni algoritmiche? La filosofia del diritto e l’etica applicata ci esortano a definire nuovi modelli di governance in cui non è sufficiente che un sistema sia funzionante; deve essere anche giusto e trasparente. I criteri decisionali devono essere comprensibili (explainable AI), e deve sempre esistere un human in the loop, un soggetto umano in grado di intervenire, correggere e, se necessario, disattivare il sistema. Senza questa supervisione critica, rischiamo di delegare il nostro giudizio morale a un’entità che non conosce il bene e il male, il giusto e l’ingiusto.

La paura della sostituzione non è nuova, ma oggi si ripropone con rinnovata urgenza. Se robot e AI possono svolgere i compiti più rischiosi e ripetitivi, quale sarà il ruolo dell’uomo? La risposta non risiede nel rifiuto del progresso, ma nella sua guida consapevole. Dobbiamo orientare la tecnologia affinché liberi l’uomo dalle mansioni alienanti, consentendogli di dedicarsi ad attività che valorizzino la creatività, l’intelligenza emotiva e le relazioni - tutte qualità irriproducibili da una macchina. E allora, un autentico umanesimo del lavoro nel XXI secolo non ignorerà la tecnologia, ma la piegherà ai bisogni e alla dignità dell’uomo, riconoscendo che la sicurezza non è solo assenza di infortuni, ma anche benessere psicologico, autonomia e realizzazione.

Solo così l’ombra lunga del progresso potrà trasformarsi in una luce che illumina un futuro del lavoro davvero a misura d’uomo - dai cantieri calabresi alle vette del pensiero filosofico.

*Ingegnere  esperto in sicurezza sul lavoro

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