Mentre le grandi aziende tecnologiche globali si contendono i migliori ingegneri dell’intelligenza artificiale con offerte milionarie, l’Italia guarda da bordo campo. Il rischio? Non solo perdere la competizione industriale ed economica del XXI secolo, ma rimanere un semplice consumatore di tecnologie altrui, senza mai essere davvero protagonista. E questo, in uno scenario dove l’IA non sarà solo una leva industriale, ma il tessuto stesso del nostro futuro collettivo.
Negli ultimi mesi, il panorama della tecnologia ha visto un’accelerazione impressionante, nell’ambito del quale Microsoft, Google, OpenAI e un ristretto gruppo di altri attori stanno investendo cifre astronomiche, fino a milioni di euro annui per singolo profilo per assicurarsi i migliori sviluppatori, ricercatori e ingegneri con competenze elevate riguardo l’intelligenza artificiale.
Questa “guerra dei talenti” ha ormai assunto toni da strategia militare, con le le aziende si contendono non solo competenze, ma potere, poiché controllare l’IA, oggi, significa dominare le piattaforme, i dati, e i modelli cognitivi del domani.
Nel 2025, è chiaro a tutti che i modelli generativi, multimodali e auto-addestranti (come GPT-5, Claude, Gemini e le loro versioni enterprise) stanno ridefinendo interi settori quali la sanità, la giustizia, le imprese manifatturiere, la finanza e quant’altro.
Chi controlla l’innovazione, controlla il mercato. E chi controlla il mercato, influenza anche la politica e la cultura.
Ma cosa sta facendo l’Italia, in tutto questo, tra carenze strutturali, potenziale inespresso e rischi sistemici?
In Italia, i segnali sono chiari ma spesso ignorati. Il 63% degli imprenditori italiani dichiara di non trovare competenze adeguate in IA generativa.
E come potrebbe essere diverso? Siamo solo al 7° posto in Europa per offerta formativa nel campo dell’IA e al 16° tra i Paesi OCSE per diffusione delle competenze digitali avanzate.
Un dato allarmante riguarda il basso numero di laureati in discipline ICT, appena 1,4% del totale, a fronte di un’industria che si digitalizza rapidamente ma non riesce a farlo con personale interno.
Il divario tra domanda e offerta formativa cresce ogni mese.
A ciò si somma la storica emigrazione di talenti italiani verso l’estero.
Reddit e LinkedIn sono pieni di storie di giovani data scientist, ingegneri informatici e ricercatori che, dopo aver studiato in Italia, volano in Olanda, Stati Uniti o Israele per trovare ambienti di lavoro stimolanti, meritocratici e ben retribuiti.
Questo impoverisce il nostro ecosistema e riduce il capitale umano disponibile per le imprese italiane.
Il fenomeno si “autoalimenta”, meno talenti, meno startup, meno innovazione, meno occupazione qualificata e ovviamente ancora più fuga.
In termini di investimenti, l’Italia è 20ª al mondo per fondi destinati a startup e scale-up IA, la stessa spende solo l’1,5% del PIL in Ricerca & Sviluppo, molto sotto la media europea (2,3%) e lontanissima da Paesi come la Germania (~3%).
Nel frattempo, gli Stati Uniti da soli producono il 69% dei modelli di IA generativa. L’Unione Europea nel complesso, il 4%.
Il paradosso italiano è evidente, abbiamo infrastrutture come il supercomputer Leonardo, tra i più potenti in Europa, ma non abbiamo abbastanza specialisti per usarle pienamente.
Il risultato è che queste infrastrutture rischiano di diventare cattedrali nel deserto digitale.
Le PMI italiane, ossatura del nostro sistema economico sono spesso impreparate ad affrontare la trasformazione digitale guidata dall’IA.
I dati ci dicono che laddove l’IA viene introdotta, l’efficienza cresce: +5% per il 47% delle aziende, almeno +1% per il 74%. Ma le implementazioni restano sporadiche, episodiche, nei fatti mai sistemiche.
Se vogliamo davvero giocare questa partita, dobbiamo uscire dalla logica delle iniziative isolate e pensare in termini sistemici. Ecco alcune leve fondamentali da attivare subito:
formazione continua e sistemica;
Piano Nazionale di Alfabetizzazione AI, a partire dalle scuole primarie;
espansione dei corsi universitari: oggi l’Italia offre 66 corsi in IA, contro i 146 della Germania;
formazione congiunta università-imprese, con il coinvolgimento di sindacati e territori, come previsto nel piano GOL e nella Repubblica Digitale;
integrazione dell’IA nei percorsi ITS, negli Istituti Tecnologici Superiori, fondamentali per il tessuto industriale italiano.
Vanno, altresì, curati gli investimenti pubblici e privati intelligenti quali:
il sostegno diretto a startup e scale-up con strumenti di venture capital pubblico e incentivi fiscali mirati;
lo sfruttamento intelligente dei mega-investimenti: come quello di Microsoft, che investirà 4,3 miliardi di euro in due anni in Italia, con una rete di data center e un piano formativo da un milione di persone;
l’allineamento alla strategia europea: coerenza tra i fondi PNRR, Horizon Europe e investimenti privati.
Il fenomeno dovrebbe essere “governato” a livello unitario con una unica strategia unitaria, che ricomprende:
appunto una Strategia Nazionale AI integrata con il piano per l’Industria 5.0, che includa sanità, giustizia, energia, PA e manifattura;
il potenziamento dei Competence Center e creazione di poli regionali d’eccellenza;
l’istituzione di un coordinamento centrale, trasversale tra ministeri, università, imprese e pubbliche amministrazioni;
la capacità di trattenere e attrarre talenti;
introdurre incentivi per ricercatori italiani all’estero e per profili internazionali;
progetti avanzati che valorizzino i giovani in Italia, con percorsi chiari e trasparenti;
- Un piano serio per il rientro dei cervelli: meno retorica, più contratti reali e competitivi.
Il futuro dell’intelligenza artificiale non è più un’ipotesi. È un percorso già in atto, che determinerà i nuovi equilibri geopolitici, economici e culturali.
Oggi siamo di fronte a un bivio, o rientrare in gioco con una strategia nazionale ambiziosa, o rimanere spettatori di un progresso che ci scavalca.
Se non affronteremo con lucidità la questione educativa, la fuga dei cervelli, il gap di investimenti e l’assenza di una visione strategica, rischiamo di trasformare l’Italia in un Paese che consuma IA prodotta altrove, ma che non partecipa alla sua progettazione, né ai suoi benefici.
La vera sfida, insomma, non è tecnologica. È politica, educativa e culturale. E riguarda tutti noi.







