Par di vederli, questi due vecchi araldi del “pensiero che avanza”, La Stampa e la Repubblica, da sempre alte bandiere dell’establishment progressista, oggi ridotti a mercanzia messa all’incanto dagli Agnelli, dinastia di un capitalismo da retrobottega che ha sempre prosperato all’ombra lunga dell’erario e di svendite per far cassa, baciando con metodo la pantofola del potere quale che fosse. Dalla Buonanima a Togliatti, da De Gasperi a Romano Prodi o addirittura a Peppiniello Conte, se in campo largo.
Servi utili, altro che cani da guardia della libertà d' espressione.
Per anni hanno offerto ai loro devoti lettori l’illusione di essere la coscienza critica della nazione; e in effetti due braccia le hanno avute — entrambe sinistre, naturalmente, come s’addice alle mostruosità tenere e benvolute dai compagni che, tra un convegno e un aperitivo impegnato, vi scorgevano un prolungamento editoriale della propria anima bella.
Risultato: una stampa sì “autorevole” ma con la consistenza culturale della pasta al formaggino, quel pappone tiepido adatto agli infanti in svezzamento e agli ultranovantenni scivolati nell’alba dell’Alzheimer.
“Ma hai letto cosa scrive XY sulla Repubblica? E YX sulla Stampa?”
Dio mio: quante volte la citazione del loro Verbo infallibile — recitato con l'ostinazione fastidiosa di un muezzin che chiami alla preghiera — ha azzittato qualunque osservazione di semplice buon senso sui temi italiani e internazionali.
Insomma: due mediocri giornali, copie stinte e mal riuscite del New York Times o della Washington Post, assurti a Corano intoccabile; i loro giornalisti pagati meglio di un funzionario ONU, promossi ad eredi dei partigiani, scesi dalle montagne - semmai vi salirono - in doppiopetto o tailleur e comunque custodi di tutte le virtù: la Resistenza, la Democrazia, la Pace, il Bene, il Giusto, la Cultura, il Progresso inevitabile di un’umanità che, poveretta, talvolta sbaglia e vota Meloni o Trump.
Ed eccoci al punto finale della commedia: Stampa e Repubblica finiranno, pare, nelle mani di un riccastro greco — sicuramente Repubblica; La Stampa forse sì, forse no, si vedrà. Si vocifera addirittura di un’armata Brancaleone di imprenditori veneti, con spruzzate torinesi, pronta all’assalto.
E subito le vergini vestali della libertà di stampa si stracciano le vesti: “Addio megafoni del verbo piddino e, all’occorrenza, grillino se il campo è largo! Addio fari della civiltà contro le destre barbariche, un tempo almirantiane, poi berlusconiane, oggi meloniane!”
Un coro da tragedia greca, ma recitato da dilettanti.
Io non rido — per carattere piango la vendita di aziende italiane a mani straniere; sono sì liberale ma anche patriota. Né trovo consolante che nuovi prenditori di ventura, italiani o no, s’improvvisino editori.
Però ridacchio. Sì, ridacchio ripensando ai tanti cretinetti incontrati all’edicola, quando sfoggiavano, con voce impostata, la richiesta rituale: “La Repubblica, per favore.”
Sembrava dicessero: “Ecco il mio lasciapassare per il conclave dei Giusti, per l'Areopago dove siedono i custodi della libertà italiana.”
Quanto poi ai reduci delle due testate, non temano la fame: i grandi troveranno tutti una poltrona di prestigio - i ragazzi di bottega si fottano; come sempre accade a sinistra in circostanze del genere - da cui spiegare ancora, col broncio severo dei maestri, dove dimori il Bene e dove il Male. Cioè, dove stanno loro, e dove stanno gli altri: noi, i baluba di destra, sempre incolti e sempre colpevoli.
Stiano dunque tranquilli, a Roma e a Torino: nessuna libertà è in pericolo. Men che meno i portafogli di coloro che cantano, con voce da contralto planetario, la litania del progresso inevitabile.








