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OPINIONI

LA GUERRA INVISIBILE DELL'ITALIA

LA GUERRA INVISIBILE DELL'ITALIA

La guerra invisibile dell’Italia: rotte, cavi e potere senza difesa
Non è la Terza guerra mondiale. È una guerra a bassa intensità ma ad altissima dipendenza.
Non si combatte con carri armati o trincee, ma con navi deviate, cavi tranciati, chip introvabili e premi assicurativi che esplodono nel silenzio.
È una guerra di pressione, di interruzioni e di logoramento. E l’Italia, crocevia naturale del Mediterraneo, non ha ancora capito che ne è già parte.
Dal 2023 il Mar Rosso è diventato un campo minato. Gli attacchi degli Houthi, milizia yemenita sostenuta dall’Iran, hanno reso il passaggio attraverso Bab el-Mandeb un rischio calcolato a giorni alterni.
Le principali compagnie - Maersk, MSC, Hapag-Lloyd - hanno deviato le rotte attorno all’Africa. I tempi di consegna sono aumentati di tre settimane, i costi di carburante sono raddoppiati, i premi “war-risk” hanno toccato lo 0,7% del valore nave, con punte oltre l’1% nei momenti di picco.
Un dato tecnico che nasconde un’evidenza brutale: ogni missile nel Mar Rosso toglie ossigeno all’economia italiana.
Con oltre il 90% delle merci dirette in Asia via Suez, il nostro sistema produttivo è prigioniero di rotte che non controlla.
Abbiamo costruito la nostra ricchezza sul mare, ma non abbiamo mai difeso il mare che la trasporta.
Nel 2024 e nel 2025 una serie di incidenti nel Mar Baltico ha tranciato cinque cavi di comunicazione e una linea elettrica.
Un cargo russo-cinese, la NewNew Polar Bear, è stato indicato come possibile causa del danno: un’ancora trascinata sul fondale per chilometri.
Nessuna prova definitiva, ma abbastanza indizi da far scattare l’allarme NATO e la nascita, in Europa, di un Cable Protection Action Plan 2025, che prevede mappatura e protezione dei collegamenti sottomarini strategici.
Sotto il mare passa il 99% dei dati globali.
Banche, porti, dogane, tracciabilità: tutto dipende da quei fili invisibili.
Un cavo reciso nel Baltico o nel Mediterraneo può rallentare pagamenti, bloccare logistica, paralizzare interi settori.
E l’Italia, che vive di connessioni, non ha ancora una legge nazionale per proteggere le proprie infrastrutture sottomarine.
Nel maggio 2025, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha certificato che l’Iran possiede tra 410 e 440 chilogrammi di uranio arricchito al 60%.
È la soglia che separa la diplomazia dalla deterrenza.
Parallelamente, i proxy iraniani - Houthi, Hezbollah, milizie sciite in Iraq - hanno moltiplicato le azioni contro interessi occidentali.
Ogni volta che l’instabilità sale, sale anche il prezzo del petrolio.
Il Brent ha superato i 100 dollari a barile in più momenti dell’anno.
Per un paese che importa più del 75% dell’energia, ogni crisi nel Golfo Persico si traduce in un’inflazione industriale immediata.
Eppure l’Italia non ha riserve strategiche adeguate, né un piano di ridondanza energetica.
Dipendiamo dalla buona sorte e dalle pipeline altrui.
Nel Sahel, intanto, è crollato l’ordine costruito in vent’anni di missioni occidentali.
Dopo il ritiro americano dal Niger e quello francese dal Mali, la Russia ha colmato il vuoto con il nuovo Africa Corps, evoluzione statale del gruppo Wagner.
In cambio di sicurezza per le giunte locali, Mosca ottiene miniere di uranio, oro e terre rare.
È un patto che ridisegna i corridoi minerari e rende più instabili le rotte migratorie verso l’Europa.
Per noi significa due cose: materie prime meno accessibili e flussi migratori più ricattabili.
Il Sahel è diventato il retrobottega del potere russo - e noi ci siamo limitati a chiudere le ambasciate.
Nel Mar Cinese Meridionale la guerra non è dichiarata ma costante.
Navi cinesi e filippine si urtano, si bloccano, si accecano con laser, si tagliano le cime di rimorchio.
È la strategia della morsa: colpire senza superare la soglia del conflitto aperto.
Ogni volta che succede, migliaia di container diretti in Europa restano fermi.
Dentro ci sono microchip, magneti, sensori, moduli elettronici - tutto ciò che alimenta la manifattura italiana.
Quando Pechino o Manila si urtano, Vicenza e Torino si fermano.
Sul fronte economico, gli Stati Uniti e l’Europa hanno scelto la via del decoupling.
Washington limita l’export di chip avanzati verso la Cina; Bruxelles impone dazi fino al 35% sui veicoli elettrici cinesi.
Pechino risponde riducendo l’export di grafite e terre rare.
Non è più una guerra commerciale: è una cortina economica.
E chi, come l’Italia, vive di componenti importati, si trova in mezzo a due blocchi che si parlano a colpi di licenze.
Ogni singolo ritardo doganale, ogni revisione di sanzioni, ogni “aggiornamento BIS” può bloccare settimane di produzione.
Il futuro industriale italiano dipende da documenti firmati a Washington e Pechino, non da decisioni prese a Roma.
Mentre tutto si muove, c’è un settore che cresce: la difesa.
L’Europa corre verso il 2% minimo di spesa militare sul PIL, ma i paesi più reattivi - Francia, Polonia, Regno Unito - sono già oltre.
L’Italia resta ferma all’1,7%, eppure ha tutte le filiere necessarie: acciai speciali, elettronica, sensori, cantieristica, aerospazio.
Ma manca un disegno.
Il riarmo, oggi, non è ideologia: è politica industriale.
Chi produce tecnologia di difesa non solo si protegge, ma crea valore, lavoro, autonomia.
Chi non lo fa, compra da chi decide le regole.
L’Italia continua a reagire a ogni crisi come fosse un temporale isolato.
Manca una visione d’insieme.
Abbiamo costruito una diplomazia che osserva, un esercito che esegue, un’economia che dipende.
Serve una dottrina nazionale di resilienza:
difendere Suez e le rotte mediterranee come si difende una frontiera;
proteggere i cavi sottomarini come si protegge una base militare;
creare un comando unico per la sicurezza logistica e industriale;
integrare energia, difesa e industria sotto un’unica strategia;
tornare a essere potenza marittima, non corridoio continentale.
Non è più questione di alleanze o ideologie: è questione di sopravvivenza.
Chi controlla le rotte, i cavi e le filiere controllerà l’economia del mondo.
E chi resta a guardare, finirà a mendicare accesso ai porti, alle reti e ai dati.
L’Italia non è neutrale. È esposta.
E in un’epoca in cui la guerra non si dichiara più, la vulnerabilità è la forma moderna della resa.
In un mondo dove conta solo chi costruisce e difende, tornare a farsi governare da chi predica senza produrre sarebbe l’ultimo lusso di un Paese che non può più permettersi illusioni.
 
 
 

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