Quando le parole diventano micce. Il rischio di un’Italia che gioca col fuoco
L’esplosione dell’auto di Sigfrido Ranucci non è soltanto un fatto di cronaca nera: è un campanello d’allarme collettivo, il simbolo di un Paese che da troppo tempo vive in uno stato di febbre verbale e morale. Un Paese che ha smarrito la misura, la capacità di ascoltare, e perfino la fiducia nel dialogo come strumento di convivenza democratica.
Viviamo in una stagione in cui la parola pubblica è diventata un campo minato. Ogni frase è un potenziale innesco, ogni opinione un detonatore. Sui social, nei talk show, nei palazzi del potere e nelle piazze virtuali, si consuma quotidianamente una guerra di parole in cui nessuno cerca più di capire: si vuole solo vincere, sconfiggere, annientare.
È una battaglia che non produce conoscenza,ma solo rumore e nel rumore, la verità si dissolve. Da anni la politica italiana,di ogni colore, ha scelto la scorciatoia della polarizzazione. Il confronto delle idee ha lasciato il posto alla demolizione dell’avversario. Si è perso il senso del limite e dell’etica del linguaggio. Gli insulti sono diventati strategia, l’aggressività una moneta di consenso.
La rabbia paga, l’equilibrio no. I social e i media con la loro logica binaria di "mi piace” o “mi schiero contro” hanno fatto il resto, trasformando l’arena pubblica in un circo dell’indignazione permanente, dove tutto è opinione e nulla è responsabilità. In questo clima infiammato, atti come quello contro Ranucci non nascono nel vuoto. Non è solo il gesto di un folle o di un estremista: è il prodotto di un humus collettivo, di un linguaggio che da anni semina sospetto, delegittimazione e odio.
Quando la parola si degrada, la violenza trova il suo spazio. Le parole sono come scintille: una volta accese, non si sa dove bruceranno. Il rischio è che l’Italia, pur senza accorgersene, stia giocando col fuoco. Si evocano complotti, si inventano nemici interni, si accende ogni discussione come se fosse l’ultima battaglia per la sopravvivenza della civiltà.
Tutti gridano nessuno ascolta. E chi prova a mantenere il tono basso, viene accusato di essere “complice” o “pavido”. Così il dibattito democratico muore, sostituito da un’arena dove conta solo chi urla di più. C’è un filo sottile, ma potentissimo, che lega le parole ai fatti, la propaganda all’odio, la retorica all’intolleranza.
È il filo della responsabilità linguistica e civile, che oggi in Italia sembra essersi spezzato. Non si tratta di difendere un giornalista o una parte politica, ma di chiederci dove stiamo andando come comunità. Chi difende la libertà di stampa deve poterlo fare senza paura. Chi governa dovrebbe ricordare che il linguaggio istituzionale è un atto politico, non uno sfogo personale. Chi informa, dovrebbe tornare a privilegiare la verità rispetto alla viralità.
Lo vedo ogni giorno, anche nel piccolo: sotto ogni post, otto ogni articolo, si scatena una rabbia senza forma. Gente che commenta solo perché ha una tastiera, parole gettate come pietre, opinioni che non costruiscono nulla. È il sintomo di una frustrazione collettiva, di un malessere sociale che trova sfogo nell’aggressione verbale.
Ma la brutalità non è libertà: è solo un altro modo di rinunciare al pensiero. Ecco perché serve una tregua morale e linguistica. Non tra partiti o giornali, ma tra cittadini. Serve la pazienza del dialogo, il coraggio del dubbio, la dignità del silenzio quando non si ha nulla da aggiungere. Perché in un Paese dove la parola diventa arma, nessuno è più al sicuro, nemmeno chi crede di essere dalla parte giusta. L’esplosione dell’auto di un giornalista è dunque un segnale, non un episodio isolato. Un segnale che ci dice che la violenza non nasce mai all’improvviso: cresce nelle parole, si nutre dell’odio, diventa gesto quando il senso di responsabilità collettiva evapora. Se politica, informazione e cittadini non sapranno fermarsi, guardarsi allo specchio e chiedersi che clima stanno costruendo, allora sarà inutile cercare colpevoli. Li avremo già davanti: saranno le nostre stesse parole.







