Manifesto per i caduti di Castel d’Azzano
“L’anima è una scintilla viva della luce di Dio, e dove la luce manca, ogni cosa si spegne.” — Santa Ildegarda di Bingen
Verità
È da questa parola che dobbiamo cominciare.
Verità come fenditura nel buio, come luce che attraversa le macerie di un casolare esploso in una notte di provincia, dove tre uomini in divisa sono stati inghiottiti dal fuoco, dalla follia, dall’ingiustizia.
Il 14 ottobre 2025, a Castel d’Azzano, in provincia di Verona, tre carabinieri sono morti compiendo il loro dovere.
Uomini comuni, padri, figli, servitori dello Stato: il luogotenente Marco Piffari, il brigadiere Valerio Daprà, il carabiniere scelto Davide Bernardello.
Sono usciti di casa per ristabilire un ordine civile e hanno trovato la morte in un gesto calcolato, lucido, feroce.
A farli esplodere — insieme a se stessi — due fratelli e una sorella, chiusi dentro un casolare che da mesi difendevano come una trincea.
La chiamano follia. Ma la follia, da sola, non basta a spiegare la volontà di annientare.
Non basta a dare senso al grido che precede il disastro.
Non basta a placare il dolore che resta.
Non è un articolo di cronaca
Questo non è un articolo di cronaca.
È un atto di parola, un grido scritto contro il silenzio che segue sempre le tragedie.
Un manifesto per ricordare e per interrogare.
Perché non basta piangere i caduti: occorre capire, occorre trasformare.
I folli fratelli
Chi sono oggi i “folli fratelli”?
Non soltanto tre nomi su un registro giudiziario.
Sono il simbolo distorto di un disagio che cresce, muto, nei margini del Paese.
Sono la faccia malata della solitudine, la crepa nella fiducia verso le istituzioni, il rancore trasformato in dinamite.
Hanno creduto di difendere la propria casa, ma hanno distrutto ogni casa, ogni appartenenza, ogni comunità.
I carabinieri
E chi sono invece i carabinieri?
Sono i custodi invisibili della nostra quotidianità.
Sono quelli che bussano quando nessuno vuole sentire, quelli che si espongono per difendere l’ordine che noi diamo per scontato.
Non sono eroi da cartolina. Sono carne, ossa, sudore e senso del dovere.
Sono uomini che credono in un Paese che spesso non crede più in se stesso.
Castel d’Azzano
Castel d’Azzano è diventato il nome di un’eclissi morale.
Una faglia che attraversa la coscienza nazionale.
Tre vite spazzate via in un istante, e tre altre vite bruciate nel gesto che le ha generate.
Tre più tre: sei destini legati in un nodo di tragedia e disperazione.
In quella esplosione non è morta solo la carne, ma la fiducia.
La fiducia nello Stato come madre e non come nemico,
la fiducia nella giustizia come parola viva e non come atto burocratico,
la fiducia nella possibilità di ascoltarsi prima che la rabbia diventi benzina.
Manifesto civile
Serve un manifesto civile, una voce che ricordi e ricomponga.
Non per celebrare, ma per ricostruire senso.
Non per dividere vittime e colpevoli in modo sterile, ma per comprendere come un dolore individuale possa farsi catastrofe collettiva.
Non basta dire “tragico gesto”.
Bisogna dire: tragedia della nostra epoca.
Un tempo in cui la casa è diventata un fortino, il debito una condanna, l’altro un nemico.
Un tempo in cui lo Stato viene visto come minaccia e non come respiro comune.
I caduti
I carabinieri di Castel d’Azzano non sono soltanto tre nomi su una lapide.
Sono un patto violato tra cittadini e istituzioni.
Sono la prova che la rabbia può trasformare la giustizia in rovina, e la resistenza in omicidio.
Sono la testimonianza che il sacrificio, quando non è compreso, resta muto, sospeso, incompreso.
Ma anche da questa morte può nascere un linguaggio nuovo.
Un linguaggio che non parli solo di vendetta o cordoglio,
ma di responsabilità collettiva.
Presenza
Questo manifesto non chiede vendetta.
Chiede presenza.
Chiede che ogni cittadino si riconosca parte di una rete che deve restare tesa, umana, solidale.
Chiede che il dolore non diventi spettacolo ma coscienza.
Chiede che ogni casa, anche la più fragile, venga ascoltata prima che diventi trappola.
Chiede che chi indossa una divisa non sia percepito come braccio, ma come cuore dello Stato.
Memoria e promessa
Non dimentichiamo i nomi.
Ripetiamoli come un giuramento civile:
Marco Piffari, Valerio Daprà, Davide Bernardello.
Tre uomini che rappresentano la parte migliore del nostro patto sociale.
Tre uomini che sono andati incontro alla morte senza saperlo, ma con la dignità di chi compie fino in fondo il proprio dovere.
Ricordiamo anche i tre fratelli, non per giustificarli, ma per non cedere alla semplificazione.
Perché dentro ogni follia c’è un seme di dolore che la società ha lasciato marcire.
Non basta condannare: occorre prevenire, capire, ascoltare.
Occorre ricostruire la fiducia prima che l’odio torni a parlare con la voce del fuoco.
Questo manifesto è per loro.
Per i carabinieri che non torneranno.
Per le famiglie che non smetteranno di aspettare.
Per un’Italia che non può ridursi a cronaca, a titoli, a talk show.
Per un’Italia che deve ancora imparare a riconoscere se stessa nel volto di chi serve, nel dolore di chi perde, nella follia di chi crolla.
Cosa resta
Che cosa resta, allora?
Resta la possibilità di non voltarsi.
Resta il dovere di dare un nome al sacrificio e di restituirgli senso.
Resta la necessità di riscoprire la pietà, che non è debolezza ma forza umana.
Resta, soprattutto, la parola “verità”.
Non quella giudiziaria, ma quella che attraversa le coscienze.
Quella che ci obbliga a dire che sì, a Castel d’Azzano non sono morti solo tre uomini in divisa:
è morto un pezzo della nostra fiducia.
E allora, che questo manifesto sia promessa.
Promessa di memoria, di giustizia, di cura.
Promessa di non lasciare più soli né i servitori dello Stato né i naufraghi del dolore.
Promessa di continuare a costruire, con mani nude, ciò che il fuoco ha distrutto.
Manifesto per i caduti di Castel d’Azzano
Perché dalle macerie nasca di nuovo la fiducia.
Perché il sacrificio non resti solo una notizia, ma diventi coscienza civile.







