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L'ARTICOLO DEL SABATO

IL RITORNO DEGLI ARCHETIPI

IL RITORNO DEGLI ARCHETIPI

Il ritorno degli archetipi: quando il presente si apre all’invisibile

Vi sono momenti nella storia in cui il reale sembra perdere la sua opacità e lascia intravedere strutture più profonde: come se una fessura si aprisse tra la trama degli eventi e l’ordine simbolico che li sostiene. È in quella soglia, fragile, quasi impercettibile che rivela il carattere esoterico della storia.

Non un mistero occulto, ma la consapevolezza che la realtà visibile è solo una delle sue tante espressioni.

La modernità ha cercato di cancellare questa dimensione, riducendo il tempo a sequenza lineare e la politica a gestione funzionale. Eppure, nei momenti di crisi, gli archetipi tornano a imporsi con la forza di ciò che non era mai davvero scomparso. È il principio della reintegrazione, la memoria che ritorna. Le tradizioni esoteriche, dall’ermetismo alla Qabbalah, hanno sempre sostenuto l’idea che il mondo sia animato da un principio di reintegrazione.

Ciò che è stato frantumato, disperso, dimenticato tende in modo spesso invisibile a ricomporsi.

La Qabbalah lo descrive attraverso il simbolo delle “ Qelippot”, le “frammentazioni” che devono essere ricondotte all’unità; l’alchimia lo vede nel “solve et coagula”, la tensione ciclica tra dissoluzione e ricomposizione; il mondo neoplatonico parla di “anámnēsis”, il ricordo che ci salva.

Dal punto di vista storico, questa dinamica si manifesta quando il presente viene attratto verso il proprio passato profondo, come se una forza sotterranea lo richiamasse alla coerenza originaria.

Così ritorna l’idea di confine, di impero, di centro, di axis mundi: non come nostalgia, ma come ricomparsa dell’archetipo.

La storia non procede per successione, ma per stratificazione.

René Guénon ricordava che il tempo moderno è una compressione artificiale che tenta di oscurare la dimensione verticale dell’essere. Quando le grandi strutture politiche si incrinano, gli strati profondi del tempo si riattivano come una geologia che torna a muoversi.

Nelle crisi globali, dal degrado dell’ordine liberale alla ridefinizione dei poli geopolitici, riemergono simboli antichi e, non perché l’uomo li cerchi, ma perché sono già scritti nella memoria collettiva.

L’ascesa di nuove potenze non è soltanto un fenomeno politico: è l’emersione di idee arcaiche come “centro del mondo”, “regno di mezzo”, “mare nostrum”, “terra sacra”, che ritornano sotto nuove forme storiche.

La modernità ha separato l’immaginazione dalla politica, relegando la prima alla sfera dell’estetico. Henry Corbin mostrava che l’immaginazione non è un artificio, bensì un organo di conoscenza: un mondo intermedio (mundus imaginalis) in cui si forma ciò che, più tardi, diventerà storia. Le decisioni fondamentali della geopolitica non nascono dalla pura razionalità: maturano in questo spazio intermedio dove simboli, memorie e rappresentazioni collettive operano senza essere nominate. Così si spiegano certe scelte apparentemente irrazionali, certi ritorni inattesi, certe convergenze improvvise tra popoli e potenze.

Nel mundus imaginalis si prepara ciò che la politica, più tardi, formalizzerà.

Ogni civiltà si muove lungo linee di forza che hanno natura insieme simbolica e storica.

Le frontiere non sono soltanto geografiche: sono configurazioni mentali, “zone dell’anima” in cui si definiscono identità, paure e aspirazioni. Lo vediamo oggi per la Cina, con il ritorno all’idea di Tianxia “tutto ciò che è sotto il cielo” è la riaffermazione di una cosmologia più antica della stessa diplomazia moderna, per l’Europa nel dilemma tra unità e differenza, che richiama la tensione originaria tra il modello romano come ordine e quello cristiano come cattolicità, come universalismo, per le civiltà mediterranee, il mare non è un confine ma una soglia, un liquido alchemico di trasformazione e contatto. Queste non sono categorie reinterpretate a posteriori: sono forze vive, che continuano a modellare il presente. Più la tecnica avanza, più il simbolo ritorna, non è regressione, ma una necessità di orientamento, un asse che permette di comprendere la molteplicità degli eventi.

È significativo che, in un’epoca dominata dagli algoritmi, si parli di nuovo di destino, di identità, di confini sacri, di cicli della storia.

Il simbolo non è un residuo del passato: è il linguaggio naturale con cui l’uomo attraversa l’incertezza.

Come insegnano le grandi tradizioni, ciò che è in alto si riflette in ciò che è in basso.

La geopolitica, quando è osservata in profondità, non è che la traduzione visibile di dinamiche invisibili che operano da molto prima dell’epoca moderna.

Comprendere il presente significa imparare a leggere queste linee sottili, dove storia, simbolo ed esoterismo si intrecciano.

Il futuro non sarà costruito da chi accumula dati, ma da chi saprà cogliere la struttura profonda degli eventi.

Da chi vedrà il ritorno dell’archetipo sotto la forma dell’attualità; da chi saprà muoversi tra i livelli del reale senza ridurre la complessità a meccanismi.

Viviamo un passaggio di soglia e, come in ogni antica tradizione, è nelle soglie che si decide la direzione del mondo.

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