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GEOPOLITICA

ASIA, IL NUOVO ASSE DEL MONDO

ASIA, IL NUOVO ASSE DEL MONDO

C’è un movimento silenzioso, ma costante, che attraversa l’Asia.

Non è un’alleanza formale, né un blocco compatto: è un riallineamento profondo, un lento riequilibrio che sta spostando il baricentro del potere globale verso Oriente. Mentre l’Occidente discute di regole e procedure, l’Asia costruisce corridoi, sigla accordi e apre rotte.

Dopo mesi di tensioni, l’incontro fra Trump e Xi Jinping a Busan in Corea del Sud, il 30 ottobre 2025. L'incontro, descritto da Trump come "un grande successo", era il primo faccia a faccia tra i due leader da quando Trump è entrato in carica, e si è concentrato su questioni bilaterali come tariffe, commercio e cooperazione tecnologica, culminando con l'annuncio di un accordo commerciale imminente. Dietro le parole di conciliazione si intravede una nuova logica: il confronto resta, ma prende forma un pragmatismo strategico che rimodella le gerarchie.

La Cina non cerca più soltanto l’espansione economica. Sta cercando “legittimità regionale”: una leadership riconosciuta, non imposta. Dopo anni di scontro commerciale e di sospetti, Pechino sa che non può più permettersi di essere vista come una minaccia, ma come un partner strategico. Si riaprono i canali con Nuova Delhi, si rafforzano i legami con Mosca e allo stesso tempo ci sono intese con Seul e Tokyo. È un gioco complesso, ma calcolato: ogni intesa economica è anche un segnale politico, ogni concessione diplomatica una mossa di lungo respiro.

In questo contesto emergono alcuni accordi chiave siglati da Trump nei suoi recenti spostamenti in Asia, accordi che, oltre al simbolismo, hanno implicazioni concrete: in quanto con il Giappone e la sua nuova leader,  Sanae Takaichi,  è stato annunciato una nuova  “golden age” per l’alleanza Stati Uniti -Giappone. Un rafforzamento dei vincoli di difesa, e un accordo sulla fornitura e sullo sviluppo congiunto di terre rare e minerali critici, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da Pechino. Con la Corea del Sud, è stato raggiunto un importante accordo commerciale e strategico sulla riduzione delle tariffe auto statunitensi dal 25% al 15%, in cambio di un impegno sud-coreano all’investimento negli Stati Uniti per circa 350 miliardi di dollari, e il via libera statunitense per la condivisione di tecnologia per sottomarini nucleari. In ambito sud-est asiatico, sono stati firmati accordi commerciali con la Malesia e la Cambogia, e quadri di intesa con la Thailandia e il Vietnam. Questi patti prevedono l’apertura ai beni statunitensi, la cooperazione in materia di controllo degli investimenti, export controls e vie preferenziali per materie critiche, con l’intento evidente di contrastare pratiche commerciali considerate sleali da Pechino.  Accordi che realizzano una scrittura concreta del nuovo “ordine asiatico”: le relazioni non sono più solo difensive o reattive, ma proattive, costruite su infrastrutture, tecnologia e filiere strategiche. 

L’ASEAN, il Sud-est asiatico e la Corea del Sud non sono più solo contesti periferici: diventano protagonisti di una nuova geopolitica in cui l’egemonia non si impone solo con la forza, ma con la rete commerciale, tecnologica, logistica. L’India, da parte sua, entra nella partita come la grande variabile. Ha imparato a dialogare con tutti senza appartenere a nessuno. Stringe accordi energetici con la Russia, ma non disdegna di acquistare petrolio dalla Guyana, collabora con gli Stati Uniti nel campo della tecnologia e osserva la Cina con un misto di diffidenza e pragmatismo. In questo equilibrio instabile, Nuova Delhi costruisce il proprio spazio d’influenza, capace di parlare all’Occidente ma pensato per guidare il Sud globale. Intorno a loro, il Sud-est asiatico si trasforma in un crocevia di strategie: Il Vietnam diventa hub manifatturiero, la Malesia porta d’ingresso per i commerci sino-indiani, l’Indonesia un polo energetico e digitale in crescita. Questi Paesi, un tempo spettatori, sono oggi protagonisti della nuova architettura del potere asiatico.

Il paradosso è che, mentre l’Europa e gli Stati Uniti discutono di contenimento, l’Asia parla di connessione. La sua forza non sta più solo nella produzione o nel costo del lavoro, ma nella capacità di integrare energia, tecnologia, logistica, sicurezza. Dove l’Occidente impone regole, l’Asia propone interdipendenza. E in un mondo dove l’autonomia vale quanto l’influenza, questo linguaggio convince più di qualsiasi dottrina.

Il riallineamento asiatico non è un blocco contro qualcuno: è un movimento verso qualcosa. Verso un ordine multipolare in cui il potere non è più concentrato, ma distribuito. È l’inizio di una nuova grammatica geopolitica, in cui Pechino e Nuova Delhi possono essere rivali ma anche co-architetti di un sistema che non vuole più dipendere da altri. È il secolo asiatico.

Non come affermazione di dominio, ma come riallineamento silenzioso del potere globale. Si scrive nei porti dove le rotte si incrociano come vene di un nuovo organismo mondiale, nei corridoi energetici che ridefiniscono le dipendenze, nei tavoli diplomatici dove la geografia torna a essere destino. L’Asia non conquista, riconfigura.

Perché la potenza, oggi, non si misura più nella capacità di occupare, ma in quella di connettere economie, tecnologie, culture e visioni.

E in questa nuova architettura del mondo, l’Occidente non è escluso: è invitato, se saprà comprendere che la vera egemonia non nasce più dalla forza, ma dalla relazione intelligente tra le forze.

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