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GEOPOLITICA

ISRAELE E PALESTINA, THE DAY AFTER

ISRAELE E PALESTINA, THE DAY AFTER

di Cosimo Risi

Si festeggia a Gaza, si festeggia a Tel Aviv. Nella piazza delle manifestazioni del sabato sera contro il Governo Netanyahu, la folla ascolta l’arringa di Steve Witkoff e Jared Kushner, i due ebrei americani spediti dal Presidente Trump a chiudere la partita nell’ultima sessione negoziale. Il primo è l’inviato personale per il Medio Oriente, il secondo è il genero e già architetto degli Accordi di Abramo. Sono soci in affari, con loro una cordata di fondi del Golfo, a garanzia che la ricostruzione di Gaza, l’ONU calcola una cinquantina di miliardi di dollari, è già opzionata.
Al Cairo, il Presidente al-Sissi e lo stesso Trump convocano la riunione dei massimi dirigenti arabi, musulmani, europei per definire il percorso del dopo. The day after, appunto, che si presenta confuso sia per i negoziatori che per i Palestinesi.
Fra i 20 punti del Piano Trump-Blair, certa nostra stampa preferisce aggiungere il nome dell’ex Premier laburista britannico, ve ne sono alcuni subito messi in discussione.
Si prenda il disarmo di Hamas e l’esilio dei suoi dirigenti. Appena le IDF hanno cominciato a riposizionarsi fuori da Gaza City e avvertito la popolazione che poteva rientrare verso nord, sono ricomparsi i miliziani di Hamas: per riportare l’ordine, dichiarano. In realtà per testimoniare l’esistenza con l’esibizione delle armi ed eliminare quanti essi accusano di intelligenza con il nemico.
I dirigenti non prendono la via dell’esilio, dove sarebbero verosimilmente braccati dai servizi di Israele, ma intendono restare sul posto, cederanno le armi (quali?) all’esercito palestinese, baderanno che nessun potentato straniero amministrerà la Striscia. Stranieri anche i militari delle potenze arabe e musulmane? E se la Striscia sarà riserva politica dei Palestinesi, da chi questi saranno rappresentati? Si ripropone il dilemma dell’Autorità Palestinese: poco efficace in Cisgiordania, che pure teoricamente amministra, poco credibile come soggetto unitario e unificante delle varie anime palestinesi.
In Israele si riapre il dibattito sulle responsabilità del Governo nella debacle del 7 ottobre. L’inchiesta fu fermata a causa del conflitto. Ora che il conflitto conosce una pausa, vi sarebbe modo di avviarla. L’opposizione plaude alla tregua, non mancherà di alzare la voce alla ripresa del dibattito politico. Si andrà ad elezioni anticipate o si aspetterà la naturale scadenza dell’autunno 2026?
Il calcolo di Netanyahu potrebbe essere di avvantaggiarsi del momento di ritrovata popolarità e tentare la carta del voto. Per liberarsi dell’ingombro dei partiti di ultradestra e scoprire la vocazione laica? Per sconfiggere una volta ancora il cartello dell’opposizione il cui slogan resta sempre lo stesso: tutto fuorché Netanyahu?
È ragionevole pensare che la tregua sia fragile e la gioia nelle piazze sia effimera. I due più autorevoli dirigenti palestinesi, ed in particolare quel Marwan Barghouti cui si attribuisce la leadership potenziale dell’AP, non figurano fra i prigionieri ed i detenuti liberati in questo scambio. La loro esclusione parrebbe un motivo di inconfessata convergenza fra il Governo di Israele e Hamas. Per ragioni opposte nessuno dei due vorrebbe rafforzare il potere dell’AP: Hamas per non facilitare un concorrente, il Governo per non dare la stura al processo di creazione dello stato
A confortarli è l’agnosticismo di Trump. Sulla soluzione dei due stati non esprime un’opinione: la questione è affare delle parti.

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