Momento storico” e fine della guerra di Gaza
Secondo Gershon Baskin, ex mediatore nel celebre scambio Shalit-Hamas del 2011, l’accordo di Sharm el-Sheikh rappresenta non un semplice cessate il fuoco ma la vera fine della guerra a Gaza.
Questa distinzione è fondamentale: un cessate il fuoco è temporaneo, spesso fragile e revocabile; un accordo di fine guerra implica riconoscimento reciproco, impegni vincolanti e inizio di una fase politica nuova. Se confermato, significherebbe la prima conclusione strutturale di un conflitto israelo-palestinese da oltre 75 anni, aprendo la strada a negoziati post-bellici su ricostruzione, sicurezza, confini e autodeterminazione palestinese.
Baskin attribuisce un ruolo determinante a Donald Trump e al suo emissario per il Medio Oriente, Steve Witkoff, nel costringere le parti, in particolare il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ad accettare l’accordo. Secondo Baskin: Trump avrebbe esercitato pressione diretta su Israele; gli intermediari arabi (Qatar, Egitto, Turchia) avrebbero fatto lo stesso con Hamas; Israele e Hamas si sarebbero trovati nella stessa stanza, per la prima volta nella storia, almeno simbolicamente.
L’idea di Baskin è chiara: la diplomazia americana ha sfruttato una combinazione di forza e pragmatismo per ottenere ciò che decenni di tentativi multilaterali non erano riusciti a realizzare. Da qui la sua affermazione provocatoria ma significativa: “Trump merita il Nobel per la pace” non per idealismo, ma per efficacia.
Baskin descrive un lavoro sotterraneo di mesi, fatto di contatti discreti con esponenti di Hamas in esilio, per convincerli che Washington fosse realmente impegnata nella fine del conflitto e non complice di Israele. Questo canale “non ufficiale” è cruciale perché: permette di superare la mancanza di relazioni formali tra Hamas e gli Stati Uniti; evita la rigidità diplomatica; crea fiducia personale,elemento indispensabile per negoziati ad alta tensione.
Baskin si conferma quindi come una figura-ponte: non rappresenta uno Stato, ma usa il capitale umano costruito in anni di mediazioni per connettere mondi incompatibili.
Uno dei punti più sensibili resta la possibile liberazione di Marwan Barghouthi, figura simbolo del movimento palestinese incarcerato in Israele dal 2002. Per Hamas, la sua liberazione è una condizione politica essenziale: Barghouthi è percepito come l’unico leader capace di unificare Fatah e Hamas, ridando legittimità interna alla rappresentanza palestinese. Baskin ammette che su questo punto non ci sono ancora certezze segno che la pace è fragile e incompleta.
L’accordo, se reale e duraturo, potrebbe: ridisegnare gli equilibri del Medio Oriente, riducendo l’influenza di Iran e Hezbollah; riabilitare il ruolo statunitense come forza diplomatica globale, dopo anni di perdita di credibilità nella regione; offrire a Israele una via d’uscita da un conflitto logorante e impopolare; riaccendere, finalmente, la prospettiva di una soluzione politica per i palestinesi.
Al di là delle dinamiche politiche, il fatto che come dice Baskin “israeliani e funzionari di Hamas siano stati nella stessa stanza” rappresenta una svolta psicologica. Per la prima volta si riconosce implicitamente che l’altro esiste e ha voce, rompendo il tabù del non-dialogo. Nella storia dei conflitti, questo passaggio è sempre il preludio alla pace vera, perché la disumanizzazione reciproca cessa di essere totale.
L’intervista a Baskin è molto più di una cronaca, è il racconto di una transizione potenziale, da un paradigma di guerra perpetua a uno di diplomazia pragmatica. La sua importanza non sta solo nel contenuto, ma nel cambio di linguaggio: da “sconfitta” e “rappresaglia” a “accordo”, “fiducia” e “fine della guerra”. Se questo processo reggerà, entrerà nei libri di storia come il primo vero punto di svolta del conflitto israelo-palestinese del XXI secolo.