La geopolitica del gas e la pace condizionata: il caso Gaza Marine tra BP, Israele, Trump e Blair
Il giacimento Gaza Marine, scoperto nel 2000 al largo della Striscia di Gaza dalla British Gas (oggi Shell, ex gruppo BP), rappresenta una riserva stimata di circa 30 miliardi di metri cubi di gas naturale. Sebbene non si tratti di un volume imponente su scala globale, il suo valore è eminentemente strategico. La sua eventuale estrazione garantirebbe infatti ai palestinesi un grado significativo di autonomia energetica e finanziaria, modificando gli equilibri di dipendenza economica da Israele e, al tempo stesso, limitando la possibilità che le risorse diventino uno strumento di potere economico per Hamas. È per tali motivi che il giacimento resta, da oltre vent’anni, bloccato.
Gaza Marine potrebbe integrarsi con le infrastrutture israeliane già operative, in particolare con i giacimenti di Leviathan e Tamar, sviluppati da consorzi anglo-americani e israeliani, delineando così un bacino energetico comune nel Mediterraneo orientale. Tale scenario configurerebbe non solo un’area di cooperazione tecnica, ma soprattutto una piattaforma di controllo politico sulle risorse e sui flussi energetici regionali.
In questo contesto si inserisce la figura dell’ex premier britannico Tony Blair, designato come “consigliere” per la ricostruzione di Gaza, ruolo che molti analisti interpretano come funzionale alla fase preparatoria di normalizzazione e commercializzazione del gas palestinese all’interno di un quadro politico controllato. Blair, da anni vicino all’ex presidente Donald Trump, ha svolto funzioni di consulenza sulle questioni arabe e mediorientali. La sua presenza nel Consiglio di Pace per Gaza, prevista dal piano americano, risponde alla logica di un inviato o “facilitatore” incaricato della transizione post-bellica e della ricostruzione economica attraverso il “Tony Blair Institute for Global Change, al quale collabora anche Jared Kushner, ex consigliere per il Medio Oriente e genero di Trump.
Dopo aver lasciato la politica attiva, Blair si è inserito nel settore energetico globale, intrattenendo relazioni dirette con BP (British Petroleum) e società collegate. La BP, nata nel 1909 come Anglo-Persian Oil Company, in epoca ancora ottomana, e poi divenuta British Petroleum Company nel 1954, rappresenta uno dei simboli più longevi dell’intersezione tra energia, diplomazia e potere imperiale. Già nei primi decenni del Novecento, la compagnia sviluppò un oleodotto per collegare i giacimenti persiani alla città di Abadan, in quella che oggi è l’area meridionale dell’Iraq, dove sorse una delle più grandi raffinerie dell’epoca. Da lì la società si espanse attraverso la Turkish Oil Company, controllandone il 50% delle azioni per accedere ai giacimenti iracheni, consolidando la propria influenza in quella che diventerà la geografia energetica del Medio Oriente moderno.
La figura di Tony Blair si colloca pienamente all’interno del paradigma della “diplomazia energetica privatizzata”, in cui i negoziati di pace si intrecciano con le dinamiche di sfruttamento delle risorse e con la definizione di nuove rotte infrastrutturali: gasdotti, terminali di liquefazione e hub energetici.
In tale cornice, i giacimenti di Gaza e quelli israeliani rappresentano un motore silenzioso delle attuali dinamiche politiche regionali. La gestione delle risorse energetiche costituisce una leva di controllo della pace stessa: decidere chi estrae, chi incassa i profitti e chi garantisce la sicurezza delle infrastrutture equivale a determinare il futuro politico del territorio.
Il conflitto su Gaza, pertanto, non è solo un confronto ideologico o religioso: è innanzitutto una partita di controllo energetico e di accesso ai flussi di capitale internazionale.
Tony Blair, in questa prospettiva, rappresenta il punto di convergenza tra la diplomazia tradizionale e il business globale, tra la retorica della pace e la realtà delle transazioni.
Il destino del gas di Gaza potrebbe dunque costituire la chiave della futura “pace condizionata”: una pace non generata dal dialogo politico, ma modellata dagli interessi energetici e finanziari che definiscono la nuova geoeconomia del Mediterraneo orientale.