Il termine monade dal greco μονάς monás, a sua volta derivante da μόνος, mónos, che significa uno, singolo, solo, in ambito filosofico è un concetto che ha assunto significati differenti, a seconda di coloro che hanno tentato di approcciare ed elaborare questa tematica.
Sin dai tempi più remoti, dalla scuola pitagorica a Sant’Agostino, per poi giungere a Cusano e a Bruno si fa cenno a questo elemento "invisibile e indivisibile" della realtà che possiede certamente una sua compiutezza e connotazione spirituale, contrapponendosi, ad esempio, in Leibniz alla "diade", espressione del disordine e del caos.
Generalmente, con il termine "monade", si indica un principio fondamentale, indivisibile e autosufficiente della realtà.
Il filosofo razionalista Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) è il più noto per aver sviluppato il concetto di monade, utilizzando tale termine a partire dal 1696, nella "Monadologia": la monade non è altro che " sostanza semplice" che entra nei composti; semplice, cioè senza parti.
E debbono esserci sostanze semplici, poiché c'è ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o un aggregatum di semplici.
La monade di Leibniz in questa accezione, non rappresenta quindi l’atomo fisico ma metafisico, l’essere completo e indistruttibile, centro di attività e di forza ("appetizione e appercezione") che consterebbe nella sua nozione o natura tutti i suoi propri attributi.
Nella sua "Monadologia", trattato redatto nel 1714, le monadi rappresenterebbero quindi le unità fondamentali della realtà: indivisibili e senza parti, ovvero, non materiali.
Le monadi sono autonome, cioè non interagiscono tra loro causalmente, ("le monadi non hanno porte né finestre"), quindi non è nella loro peculiarità "comunicare" con l'esterno, ma seguirebbero una "armonia prestabilita" da Dio, pur avendo ciascuna un proprio universo e quindi vi sarebbero tanti universi quanti sono le monadi.
Ogni monade è quindi nel pensiero di Leibniz un "centro di percezione" cioè riflette l’universo da un suo punto di vista peculiare.
Dio è la monade suprema e perfetta, mentre tutte le altre monadi derivano da Lui.
Platone, (Atene 428/427 a C.- ivi 348/347 a.C.), nei suoi "Dialoghi" si riferisce alla "monade" come principio dell'unità e della perfezione.
Dal punto di vista platonico, la monade è un concetto che si riferisce all'unità primordiale e all'indivisibile.
Nel pensiero del filosofo ateniese il termine "monade" non è usato esplicitamente con il significato che acquisirà successivamente in filosofi come Plotino (Licopoli, Egitto, 203-206 - Campania 269-270) o Leibniz, quanto come concetto di "unità" nell'ambito della "teoria delle idee".
Platone parla di unità e molteplicità soprattutto nei suoi dialoghi matematici e metafisici, come nel Parmenide (lV sec. a.C.) e nel "Filebo", (tra il 366 e il 365 a.C.)
Nel Parmenide, ad esempio, il filosofo ateniese indaga il problema dell'Uno e dei molti, cercando di comprendere come l'Unità possa coesistere accanto alla molteplicità.
Nel "Filebo", distingue tra la dimensione dell’Unità (che è connessa al Bene e all’Intellegibile), a quella della molteplicità, strettamente legata al divenire.
Inoltre, nella sua "teoria delle Idee", ogni Idea può essere vista come una sorta di monade, nel senso e nell'accezione che è un principio unico che raccoglie e ordina ed è "ordinante" di una molteplicità di enti particolari.
L’Idea del Bene, in particolare, può essere considerata la Monade suprema, poiché è il principio che unifica e dà senso a tutte le altre Idee.
Successivamente, il concetto di monade sarà sviluppato più chiaramente in ambito neoplatonico da Plotino, in base al cui pensiero, l'Uno (o la Monade) è il principio assoluto da cui tutto deriva per “emanazione”.
Plotino, nella sua filosofia neoplatonica, denomina Uno l'origine di tutte le cose, da cui derivano l’Intelletto e l’Anima.
Nel Neoplatonismo, la Natura, in quanto generata dalla potenza infinita dell'Uno, non è una combinazione “meccanica e accidentale” di più parti, ma è animata da un'unità interiore che obbedisce alle leggi che essa stessa si dà, e, autodeterminandosi, si articola nel molteplice, principio in cui è di nuovo evocata l'essenza monadica.
Il concetto di monade verrà ripreso anche nella filosofia rinascimentale.
Giordano Bruno (1548-1600) sviluppa una concezione "panteistica" della monade, intravedendola come un'entità spirituale presente ovunque nell’universo, un microcosmo che riflette il macrocosmo.
Bruno espone la teoria della Monade in due poemi latini, il "De triplici minimo et mensura" e il "De monade numero et figura".
Il fine di Bruno è quello di conciliare l’unità immutabile dell’essere con la molteplicità mutevole degli enti.
Per quanto riguarda il "minimo', da esso nascono e in esso consistono e si riducono l’oggetto e lo scopo della natura e dell’arte. Il minimo ha differenti nomi, in riferimento ai differenti aspetti della natura: il punto, ad esempio, è il minimo della superficie, l’atomo è il minimo dell’uomo.
Se nel "De minimo" è esposta la via attraverso la quale l’uomo può comprendere il rapporto tra il tutto e le parti, nel "De monade", si spiega il processo divino in base al quale questo rapporto si è costituito.
Recuperando la tradizione neopitagorica, Bruno tenta di ridurre l’universo alla struttura numerica (in particolare ai primi dieci numeri), poiché la sua genesi dipende dalla monade. Per cogliere tale unità è necessario salire dalle ombre delle idee, espresse in segni, alle idee vere e proprie. Infatti, i segni, essendo le basi dell’arte combinatoria, creano legami che rinviano alla struttura del cosmo.
Tuttavia, è solo grazie l’ausilio dell’arte della memoria, che l’intelletto può conoscere l’unità, risalendo i gradi attraverso i quali il molteplice si era risolto nell’Uno.
Dio è la monade delle monadi, {•••} l‟essere degli esseri… è per via di questa monade che tutte le cose sono Una… Dal minimo tutto cresce ed ogni magnitudine viene ridotta al minimo… il minimo diventa molteplicità, innumerabilità, ed infinità”.
Filosoficamente, quindi, la monade rappresenta un principio di unità, autonomia e fondamento della realtà, assurgendo, nei secoli successivi, nella filosofia di Leibniz, all'elemento base della sua metafisica, mentre in altre tradizioni, come prima evidenziato, rimane genericamente associata e circoscritta all’idea di una realtà unica e originaria.








