di Angelo Giubileo
Oggigiorno, possiamo dire che la derivazione delle lingue europee dalla lingua madre, e quindi iniziale, del sanscrito sia un dato scientifico acquisito. Altra questione è se la lingua sia elemento necessario e sufficiente per individuare le caratteristiche proprie, in genere, di una comunità o popolo, in sé o contrapposto ad altri popoli. Ciò che, in genere, chiamiamo anche “cultura” e che invece, facendo riferimento al corrispondente modo di vivere della comunità di individui in questione, dovremmo chiamare, più propriamente, culto.
Cultus è termine latino riferito alla “cura della divinità e del suo sacrario”. E quindi è evidente come il termine implichi una relazione tra il dio e il territorio, e per dirla in un altro modo, pre-mito/logico, che quindi precede, indichi il genius loci (letteralmente: il genio del luogo; in senso traslato: ciò che inizialmente è in esso manifesto).
Marcel Granet, nel suo Danze e leggende dell’antica Cina, scrive che: Ancora meglio che a Roma, in Cina possono essere studiati – studiati nelle loro evoluzioni e nelle loro connessioni – l’instaurarsi del potere signorile proprio del capo politico e quello del potere signorile proprio del capo famiglia[1]. Oggi, come attraverso un passato plurimillenario, diciamo che, senza dubbio (n.d.r.: mai dire mai), la cultura cinese e orientale, in genere, presenta numerose ed enormi differenze rispetto alla cultura greco-latina e occidentale. E tuttavia Granet, e così moltissimi altri prima e dopo di lui, hanno ri-costruito un patrimonio di indizi e prove, tali da risalire a una genesi (genius) culturale (loci) - ciò che Martin Heidegger chiamerebbe “l’inizio di ogni inizio che è” - viceversa comune.
Tutto ciò è riconducibile alla questione dell’Urheimat. In proposito, nel suo Sulle tracce degli indoeuropei, Harald Haarmann scrive: Per chiarire la questione dell’Urheimat vanno tenuti presenti i risultati ottenuti dalle più svariate discipline scientifiche. Ciò richiede un’analisi del tipo di economia quale fondamento dell’esistenza quotidiana, come pure dei modelli di vita (antropologia) a essa associati; del lascito materiale delle popolazioni preistoriche (archeologia); dei più remoti stadi del linguaggio (linguistica storico-comparativa); delle tradizioni culturali (storia della civiltà); della concezione preistorica del mondo nel suo insieme (storia della mitologia e delle religioni) e, non da ultimo, delle caratteristiche genetiche dei popoli (genetica umana)[2]. E non ritengo sia per nulla una casualità il fatto che quello che qui viene elencato per ultimo, costituisce, in vero, l’elemento dal quale la scienza odierna sembra di nuovo ri-partire, con la mappatura completa del DNA umano, ovvero il dato genetico (genius loci).
Ma: qual è più propriamente il locus initialis di cui diciamo?
Nel loro monumentale e celeberrimo studio, Il Mulino di Amleto, gli storici della scienza Giorgio de Santillana Hertha von Dechend annotano ed evidenziano, soprattutto, come – all’indomani delle ricerche di Sir James George Frazer, culminate nella stesura dell’altrettanto celeberrimo studio, il Ramo d’oro, – i culti della fertilità fossero stati intesi come “forma universale della più antica religione, e sulla magia primitiva a essa collegata. Sembrava proprio che fosse questo lo humus da cui era cresciuta la civiltà: semplici divinità delle stagioni, una moltitudine indistinta di contadini (…). A ciò s’aggiunse, nelle cerchie politiche, l’immagine della guerra come inerente alla natura umana e insieme nobilitante (…)”[3]. Ciò premesso, gli Autori di Il Mulino di Amleto non condivideranno affatto gli esiti delle ricerche di Frazer, anzi. Diranno, invece, di essere “decisamente lontani dai riti della fertilità di Frazer e altri, così pronti a spiegare ogni cosa. Ed è una conquista importante”[4]. Ma, come assai modestamente suggerivo: mai dire mai.
Ora, non c’è dubbio alcuno che le ricerche e le analisi dei due Autori risalgano, storicamente, a un’epoca del Neolitico, i cui contorni però si definiscono meglio attraverso “i risultati” di cui abbiamo qui detto, riportando un passo dell’opera di H. Haarmann. E dunque, ripeto: qual è più propriamente il locus initialis? La terra o il cielo?
Orbene, per quanto riguarda “la concezione preistorica del mondo nel suo insieme”, come dice Haarmann, i Veda sembrano darci, in ordine alla traduzione odierna dei documenti, una testimonianza diretta e indiretta della successione degli eventi, utili all’individuazione dell’Urheimat e della cultura protoindoeuropea.
Ma, prima di accennare allo sviluppo delle ricerche attuali, è utile un accenno alla tesi sostenuta in specie da Lokamanya B.G. Tilak tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. In particolare, nel suo Orione, l’Autore sostiene che, inizialmente, ellenici, iranici e indiani (attuali) vivevano assieme, e cioè condividevano un unicum culturale – con Haarmann, possiamo dire protoindoeuropeo – dal quale derivano tre tradizioni separate e quindi differenti per “concezioni del mondo nel suo insieme”.
Tilak scrive che Aristotele ed Eudosso hanno collocato l’era di Zoroastro (dio fondatore della cultura parsi o iranica) a qualcosa come 6000 o 5000 anni prima di Platone (ciò che trova conferma anche in Plutarco, Iside e Osiride 45 E, letteralmente: cinquemila anni prima della guerra di Troia) … e se l’era di Zoroastro doveva essere considerata così antica, a fortiori, il periodo dei Veda dovrebbe essere ancora più antico[5].
Le ricerche e le analisi di Tilak ci convincono essenzialmente per un motivo, semplice, ma per questo fondamentale o basilare: la storia delle lingue mostra che allorché un popolo perviene a nuovi concetti esso tenta di attribuire loro vecchie denominazioni (…) E, inizialmente: quando l’Uttarayana ed il Dakshinayana furono distinti per la prima volta, essi fossero denominati rispettivamente “giorno” e “notte”. E quindi, successivamente: come giorno e notte degli Dei[6]. E quindi: la terra o il cielo? Entrambi. Sicut in caelo et in terra. Ma attribuendo ai termini un significato naturalistico prima che mito-logico.
E allora, con Haarmann: la storia dei protoindoeuropei inizia a partire dal VII millennio - gli stessi da cui deriveranno ellenici, iranici e indiani -, la storia degli indoeuropei intorno al 4.500 … E quindi, precedentemente: da una prospettiva globale il passaggio oltre lo stadio dei cacciatori-raccoglitori ha a che fare con due modelli socio-economici fondamentali. Un modello, quello agricolo, sorse nel Vicino Oriente e si diffuse in Europa. L’altro modello, la pastorizia nomade o allevamento nomade del Neolitico, si formò in Europa e i suoi esordi sono da cercare nella steppa della Russia meridionale. Da lì si propagò nell’Asia centrale e in altre regioni[7]. Compresa la Cina.
Ma, attenzione (!), non si tratta di due modelli socioeconomici divisi per culture differenti: nell’Europa orientale le condizioni ecologiche non permettevano un grande sviluppo delle coltivazioni vegetali. La caccia e la raccolta dominavano da sempre nei boschi russi e nella zona steppica … I cacciatori-raccoglitori del Mesolitico rimasero nomadi, ma iniziarono pian piano ad allevare greggi di capre e pecore selvatiche per integrare il bottino di caccia sempre più magro offerto dalla steppa[8].
Così che, inizialmente, agricoltori e pastori sono categorie sociali; che finiscono per diventare divinità gemelle di entrambi i sessi. Nei Veda, rappresentate dalle stirpi degli Asura e dei Deva, equiparabili, etnologicamente, agli hindu (indiani) e ai parsi (iraniani). Gli Asura detengono il potere per primi, detronizzati poi dai Deva. L’etimologia del termine, ancora incerta, deriva probabilmente dal termine asu, “respiro”, “spirito vitale” o as, “esistere”. E tuttavia, nei più antichi inni del Rgveda, i due termini sono intercambiabili:
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hiraṇyasto asuraḥ sunītaḥ sumṛḍīkaḥ svavavāṃ yātv arvāṅ apasedhan rakṣaso yātudhānān asthād devaḥ pratidoṣam gṛṇānaḥ (Rgveda I, 35). |
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Asura dalle mani d'oro, dalla corretta guida, colui che è misericordioso, che aiuta, vieni verso di noi. Respingendo i demoni e gli stregoni, emergi dal buio Deva da tutti invocato. |
Scrive Franco Rendich: Un giorno di circa 10.000 anni fa un folto gruppo di uomini e donne, proveniente da una regione prossima al Polo Nord, giunse in un villaggio situato nel circolo polare artico. Quei profughi, a causa del ripetersi di inverni sempre più rigidi, andavano cercando verso Sud un clima mite e una dimora sicura[9] … Così come, scrive Harold Haarmann: Presso le popolazioni autoctone della Siberia, i paleoasiatici o paleosiberiani, lo sciamanesimo e la credenza negli spiriti sono tuttora vivi e praticati. Nel mondo dello sciamanesimo gli animali e le piante possiedono un’anima e ospitano spiriti protettori che garantiscono la fertilità e influenzano i ritmi del ciclo vegetativo. Anche i corsi d’acqua, le sorgenti e i laghi sono animati … Quando i cacciatori-raccoglitori della steppa passarono alla vita pastorale, ossia all’allevamento di greggi, mutò anche l’immagine che avevano del proprio mondo. Le più antiche rappresentazioni animistiche in realtà non furono abbandonate, bensì integrate e permeate da nuove concezioni legate al tipo di vita nomade … È verosimile che i pastori nomadi preistorici conoscessero un dio, che possiamo immaginarci come un nume tutelare delle loro greggi. Ed è altrettanto coerente che nella mitologia protoindoeuropea non esista nessuna arcaica divinità dell’agricoltura[10].
In effetti, gli stessi Autori di Il Mulino di Amleto riportano un passo di Aristotele, poco noto, che sembra proprio dire la stessa cosa: I nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito, secondo cui questi corpi sono dei e il divino racchiude l’intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica …[11].
[1] M. Granet, Danze e leggende dell’antica Cina, Adelphi 2019, p. 55.
[2] H. Haarmann, Sulle tracce degli indoeuropei, Bollati Boringhieri 2022, p.25.
[3] G. de Santillana-H. von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi 2000, p. 95.
[4] Ibidem, p. 330.
[5] L. B. G. Tilak, Orione (a proposito dell’antichità dei Veda), Ecig 1991, p. 251.
[6] Ibidem, p. 60.
[7] H. Haarmann, op. cit., p. 28.
[8] Ibidem, p. 31.
[9] F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editori 2007, p. 13.
[10] H. Haarmann, op. cit., cap. 3, pp. 74-99.
[11] G. de Santillana-H. von Dechend, op. cit., p. 183.







