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CULTURA

L'EPICA DELLA COSCIENZA, LA FILOSOFIA UMANISTICA DI KEN PARKER

L'EPICA DELLA COSCIENZA, LA FILOSOFIA UMANISTICA DI KEN PARKER

di Paolo Zanotto
Prologo: nel deserto dello spirito
Nelle vastità desolate del West americano, fra le polveri che il vento solleva come memorie dimenticate e i silenzi che precedono il tuono, si muove una figura solitaria. Non è l’eroe marmoreo della mitologia western, né il pistolero dalla mira infallibile che popola le fantasie collettive: si tratta di Ken Parker, creatura letteraria scaturita dalla penna visionaria di Giancarlo Berardi e dai chiaroscuri magistrali di Ivo Milazzo, un personaggio che trascende i confini del fumetto popolare per assurgere a simbolo di un’intera concezione filosofica dell’esistenza.
Dal 1977, anno della sua prima apparizione sulle pagine dell’omonima serie edita dalla Cepim, Ken Parker ha attraversato le praterie non soltanto geografiche, ma spirituali dell’America di frontiera, portando con sé un bagaglio d’interrogativi che sfidano le certezze granitiche del genere western tradizionale. Se il West cinematografico e letterario aveva costruito cattedrali alla violenza redentrice e all’individualismo eroico, Berardi e Milazzo erigono invece un tempio alla complessità umana, dove ogni azione genera echi morali che riverberano nel profondo dell’anima.
L’antieroe come specchio della condizione umana
Ken Parker ha incarnato l’archetipo dell’antieroe esistenzialista in un contesto che a lungo sembrava refrattario a tale metamorfosi. Là dove John Wayne cavalcava verso il tramonto con la certezza granitica del giusto, Ken procede incespicando fra dubbi e contraddizioni, portando sulle spalle il fardello della consapevolezza. È un Sisifo delle pianure, condannato non a rotolare massi, ma ad interrogare incessantemente la natura del bene e del male, scoprendo quanto i confini tra questi due regni siano labili come foschia mattutina.
La filosofia sottesa al personaggio attinge profondamente al pensiero esistenzialista europeo del Novecento. Come l’Orfeo di Albert Camus che scende negli inferi della propria coscienza, Parker si trova costantemente a confronto con l’assurdo dell’esistenza. Non cerca risposte definitive, poiché ha compreso che la vita non è un teorema da dimostrare, bensì un enigma da attraversare con dignità. La sua è una libertà sartriana, gravida di responsabilità: ogni scelta che compie definisce non soltanto chi egli sia, ma contribuisce a disegnare i contorni di un’umanità possibile.
La violenza come tragedia, non come catarsi
Una delle rivoluzioni filosofiche più radicali operate dalla saga risiede nella sua rappresentazione della violenza. Nel western classico, il duello rappresentava il momento catartico per eccellenza, l’istante in cui il cosmo morale si riequilibrava attraverso la velocità della mano e la precisione del piombo. In Ken Parker, invece, ogni atto violento è una sconfitta dell’umanità, una lacerazione nel tessuto dell’essere che lascia cicatrici indelebili.
Berardi costruisce una narrazione in cui la violenza non redime, ma contamina. Quando Ken è costretto a uccidere, non vi è gloria né sollievo, ma unicamente un peso aggiuntivo che si deposita sull’anima come sedimento di un fiume torbido. Questa visione si allinea con il pensiero pacifista e con una concezione etica che affonda le radici nel personalismo cristiano e nella non-violenza gandhiana, pur senza mai scadere nella predicazione moralizzante.
La pistola diviene metafora della tentazione perpetua: lo strumento che promette soluzioni immediate ma consegna solo vuoto esistenziale. Ken la porta, talvolta la usa, ma ogni volta è come se una parte di lui morisse con il bersaglio. È la coscienza della violenza, non la violenza stessa, a definire la sua umanità superiore.
Il confronto con l’alterità
L’aspetto più rivoluzionario della serie, forse, risiede nella rappresentazione dei popoli nativi americani. Laddove il western hollywoodiano aveva costruito stereotipi monolitici – il “selvaggio nobile” o il “barbaro sanguinario” – Ken Parker offre una galleria di individui complessi, portatori di culture sofisticate e di visioni del mondo alternative ma non inferiori.
La filosofia che emerge da tale incontro risulta profondamente dialogica, richiamando il pensiero di Martin Buber e la sua concezione della relazione Io-Tu. I nativi non sono oggetti da civilizzare od ostacoli da rimuovere, ma soggetti con cui stabilire un dialogo autentico. Ken apprende le loro lingue, studia i loro costumi, comprende che la “civiltà” è un concetto plurale e che l’arroganza culturale dell’uomo bianco cela sovente abissali vuoti spirituali.
Particolarmente significativa appare la rappresentazione delle diverse nazioni native – Cheyenne, Sioux, Apache, Navajo – ciascuna con la propria identità culturale ben distinta. Berardi opera una decostruzione del colonialismo non attraverso discorsi astratti, bensì mostrando concretamente come l’espansione verso Ovest fosse un autentico genocidio mascherato da destino manifesto. La terra, per i nativi, non è proprietà ma relazione; il tempo non è lineare progresso ma ciclicità sacra. Sono visioni del mondo che Ken apprende e rispetta, arricchendo così la propria prospettiva filosofica.
L’ecologia dello spirito: natura e trascendenza
La natura, nelle tavole di Milazzo rese con un realismo pittorico che rasenta l’epifania visiva, non si limita a mero sfondo scenografico ma diviene presenza vivente, facendosi quasi personaggio autonomo. Le montagne, i deserti, le foreste rappresentano entità che comunicano silenzi eloquenti, che insegnano l’umiltà all’uomo ridimensionandone le pretese prometeiche.
La filosofia ambientalista di Ken Parker precorre i tempi, anticipando sensibilità ecologiche che sarebbero diventate mainstream solamente decenni più tardi. Non si tratta di un ambientalismo ideologico, tuttavia, quanto piuttosto di una consapevolezza profonda dell’interconnessione fra tutte le forme di vita. L’uomo non è padrone della creazione, ma suo custode temporaneo, chiamato a un’etica della responsabilità verso le generazioni future e verso le altre specie con le quali condivide il pianeta.
Nelle visioni mistiche che talvolta attraversano la narrazione – eredità spirituale delle culture native – emerge una concezione panica della natura, dove il sacro permea ogni elemento del creato. È una spiritualità immanente che dialoga tanto con il trascendentalismo americano di Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson quanto con filosofie orientali di matrice buddhista e taoista.
La solitudine come condizione ontologica
Ken Parker è essenzialmente solo. Non per misantropia o per scelta aristocratica, ma perché la sua lucidità morale lo isola inevitabilmente. Saper vedere oltre le apparenze, rifiutare le semplificazioni, mantenere integra la propria coscienza in un mondo che premia il compromesso: tutto ciò esige un prezzo elevatissimo in termini di appartenenza sociale.
La sua solitudine richiama alla mente quella dell’uomo kierkegaardiano, sospeso fra l’estetico, l’etico e il religioso, incapace di riposare in alcuna di tali dimensioni. Ken vaga non in quanto cerca qualcosa di specifico, ma perché l’erranza costituisce la sua condizione naturale: è l’eterno straniero, colui che appartiene a tutti i luoghi e a nessuno, testimone di un’umanità che osserva con compassione e distacco.
Questa solitudine non si traduce però in nichilismo. Al contrario, è proprio la capacità di stare solo con la sua coscienza che permette a Ken di mantenere intatta la propria autenticità. Nel deserto – geografico ed esistenziale – l’uomo incontra se stesso senza maschere; ed è lì che può compiere la scelta più radicale: rimanere umano malgrado tutto.
La Storia è una severa maestra
Ken Parker si muove in un’America storicamente determinata, dove le date e gli eventi reali (la Guerra Civile, le guerre indiane, l’espansione ferroviaria, la corsa all’oro) non rappresentano decorazioni estetiche, ma sono forze che plasmano destini individuali e collettivi. Berardi dimostra una consapevolezza acuta di come la grande Storia condizioni le piccole storie, di come i meccanismi economici e politici macroscopici si traducano regolarmente in microscopiche tragedie umane.
La filosofia della storia che emerge è marcatamente demistificante. Il West non fu costruito da eroi solitari ma da interessi economici spietati, da speculatori privi di scrupoli, da politici corrotti. Il progresso celebrato dalla retorica ufficiale poggia su montagne di cadaveri, la maggior parte dei quali innocenti. Ken attraversa questa Storia con gli occhi aperti, rifiutando le narrazioni edulcorate e confrontandosi con la verità nuda e talvolta orrenda dei fatti.
Eppure, anche in questo scenario desolante, non v’è determinismo assoluto. La libertà individuale, per quanto circoscritta, esiste: è possibile scegliere la propria posizione morale, decidere da che parte stare. Ken sceglie, sempre, il lato degli oppressi, dei dimenticati dalla storia ufficiale, di coloro che non avranno monumenti né celebrazioni.
L’amicizia come ancora di salvezza
Se la solitudine è condizione ontologica, l’amicizia costituisce l’apertura alla trascendenza immanente, la possibilità di connessione autentica in un universo altrimenti frammentato. I rapporti che Ken stabilisce – con il fedele Tecumseh, con i vari compagni di strada che attraversano la sua esistenza – non rappresentano legami superficiali ma comunioni profonde, basate sul rispetto reciproco e sulla condivisione di valori fondamentali.
L’amicizia, in Ken Parker, assume dignità filosofica paragonabile a quella che aveva nell’antica Grecia. È philía in senso aristotelico: non semplice affezione, ma scelta consapevole di condividere un cammino etico. Gli amici di Ken sono specchi che riflettono e confermano la sua umanità, testimoni che garantiscono che non tutto è illusione o inganno.
Particolarmente significativa risulta la rappresentazione delle donne, che sfugge agli stereotipi di genere tipici del western. Non sono né angeliche figure salvifiche né tentazioni demoniache, ma persone complesse con proprie aspirazioni e fragilità. Nei rapporti con loro, Ken mostra una tenerezza che non intacca la sua forza, dimostrando che vulnerabilità emotiva e coraggio morale non solo possono coesistere, ma si rafforzano reciprocamente.
Il tempo come labirinto: memoria e trauma
La struttura narrativa di Ken Parker fa largo uso di flashback, anacronie, frammentazioni temporali che rispecchiano il funzionamento della memoria traumatica. Il passato non è morto né concluso, ma continua a proiettare ombre lunghe sul presente, influenzando scelte e percezioni.
Simile concezione del tempo si allontana dalla linearità progressista tipica della modernità per abbracciare una visione più complessa, forse più vicina all’esperienza fenomenologica reale. Il tempo vissuto non è quello astratto degli orologi, ma quello denso di significato della coscienza, dove un istante può dilatarsi in eternità e anni interi condensarsi in un ricordo sfocato.
I traumi che Ken porta con sé – e sono molti – non vengono semplicemente “superati” secondo un’ingenua logica terapeutica. Restano, si integrano, diventano parte costitutiva della sua identità. È una visione matura e realistica della psiche umana, che riconosce come certe ferite non guariscano mai completamente ma possano essere trasformate in saggezza, in capacità di comprensione del dolore altrui.
L’etica della testimonianza
Ken Parker incarna, in ultima analisi, un testimone. Attraversa la Storia per raccontarla, per impedire che i crimini vengano dimenticati, che i soprusi vengano normalizzati, che le vittime vengano obliterate dalla memoria collettiva. In questo senso, la sua funzione è quasi sacerdotale: preserva la verità contro le menzogne ufficiali, mantiene viva la coscienza morale contro l’indifferenza.
Tale etica della testimonianza richiama il pensiero ebraico post-Shoah, la necessità di ricordare per impedire la ripetizione dell’orrore. Berardi pare suggerire che la narrazione – il racconto delle storie individuali – sia lo strumento più potente contro l’oblio e contro la banalizzazione del male. Ogni storia che Ken vive e racconta diviene un atto di resistenza contro quelle forze che pretenderebbero di ridurre l’esperienza umana a statistiche e propaganda.
La testimonianza comporta anche responsabilità: non si può testimoniare rimanendo neutrali. Ken prende posizione, si schiera, accetta le conseguenze delle proprie scelte. In un’epoca di relativismi comodi e di pavide neutralità, questa intransigenza morale si fa quasi rivoluzionaria.
Epilogo: la frontiera interiore
Se la conquista storica del West ha inteso rappresentare la frontiera geografica dell’espansione americana, Ken Parker l’ha trasformata in frontiera interiore, spazio intimo dove l’uomo confronta se stesso con le proprie possibilità e i propri limiti. Non è più un territorio da conquistare ma piuttosto un orizzonte da contemplare, ben sapendo che ogni passo avanti rivela nuovi interrogativi anziché risposte definitive.
La grandezza filosofica di questa opera risiede nella sua capacità di fondere perfettamente forma e contenuto. Il fumetto, arte sequenziale che procede per giustapposizione di immagini e parole, si converte in metafora del pensiero stesso: frammentario, associativo, capace di salti logici e intuizioni improvvise. Le tavole di Milazzo, con la loro bellezza austera e la loro precisione documentale, non illustrano semplicemente il testo ma semmai lo amplificano, creando risonanze semantiche che trascendono il mero significato letterale.
Ken Parker c’insegna che l’eroismo autentico non risiede nell’azione spettacolare bensì nella fatica quotidiana di rimanere fedeli ai propri princìpi; che la libertà è un peso da portare con dignità; che la violenza non risolve nulla, ma lascia tutti più poveri; che le culture diverse non sono minacce, ma opportunità di arricchimento; che la natura va rispettata, non dominata; che la Storia va compresa nella sua complessità, scevra da semplificazioni manichee.
In un’epoca come quella attuale, caratterizzata da certezze urlate e da semplificazioni estremamente pericolose, la lezione filosofica di questa epopea assume un’urgenza particolare. Ci rammenta che il dubbio è più prezioso della fede cieca; che l’ascolto è più fecondo dell’affermazione; che la compassione è più forte dell’odio.
Nelle praterie sterminate dove ancora cavalca, Ken Parker continua a porci questioni scomode, a disturbare le nostre certezze ipocrite e conformiste, a ricordarci che essere umani è un compito arduo, mai concluso, che richiede costante vigilanza morale. E forse, in questo messaggio semplice ma radicale, risiede la vera grandezza di un’opera narrativa che ha trasformato il fumetto popolare in letteratura filosofica, dimostrando come l’arte, quando può dirsi autentica, trascenda sempre i confini del medium che la ospita per rivolgersi direttamente all’anima.

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