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CULTURA

ANGELO COLOCCI, LA BELLEZZA DEL NUMERO

ANGELO COLOCCI, LA BELLEZZA DEL NUMERO

Angelo Colocci: la bellezza del numero e le origini dello Stato-nazione

Al centro del celebre affresco della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, nella Stanza della Segnatura in Vaticano, compare un personaggio dall’aspetto esotico, con un cappello da mago e una sfera cosmica tra le mani. Egli sembra dominare la scena. Giorgio Vasari scrisse che probabilmente si trattava di Zoroastro, o Zarathustra, fondatore dello zoroastrismo, una delle religioni più antiche del mondo, da cui derivano molti concetti che influenzeranno l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.

In realtà, quella figura enigmatica rappresenta uno dei più grandi umanisti del Rinascimento: Angelo Colocci (Jesi, 1474 – Roma, 1549), segretario apostolico di papa Giulio II e, per trent’anni, di Leone X, il pontefice della famiglia dei Medici.

Definito “il Virgilio di Roma” per la sua erudizione smisurata, Colocci fu presidente dell’Accademia Romana, studioso di geografia, cosmologia e delle corrispondenze micro-macrocosmiche — il principio secondo cui l’uomo, appartenente al microcosmo, è una miniatura dell’universo, considerato il macrocosmo. Tutto ciò che accade nel cosmo si riflette nell’essere umano e viceversa.

Amico di Bramante, di Raffaello e di Egidio da Viterbo, traduttore di Vitruvio e collaboratore di Pietro Bembo, Colocci rappresentò uno snodo decisivo nella cultura, nella letteratura, nella scienza e nell’urbanistica della Roma del primo Cinquecento.

Fu tra i primi collezionisti di antichità, cultore della metrologia e scopritore della misura del piede romano, poi chiamato piede colocciano. Tale unità di misura, pari a circa 29,57 centimetri, derivava dal piede romano antico e venne da lui proposta come standard di riferimento per gli studi di archeologia, architettura e proporzioni vitruviane.

Si trattò di una scoperta di grande importanza, poiché restituiva al Rinascimento una misura “autentica” dell’antico, utile alle ricostruzioni e ai trattati di architettura di autori come Palladio e Vignola. Per Colocci, il piede romano non era soltanto una misura materiale, ma un simbolo dell’ordine universale: la prova che tutto, dall’edificio al corpo umano, obbedisce a proporzioni matematiche perfette. Era il modo di tradurre in numeri la bellezza e l’armonia del creato, nella convinzione che “l’ordinamento prevale sull’ornamento”.

Bibliofilo, editore di poeti contemporanei, teorico della lingua volgare e precursore degli studi romanzi, Colocci incarnò la figura dell’intellettuale universale, capace di coniugare le arti, la scienza, la lingua e la politica.

La sua rete di relazioni e la sua visione del sapere anticiparono i principi fondanti dello Stato-nazione moderno: l’uso dell’eredità culturale come strumento di sovranità, la codificazione linguistica e la formazione delle élite dirigenti.

Nel senso più profondo, per “Stato-nazione moderno” si intende una forma di organizzazione politica e culturale in cui un popolo, riconosciuto come comunità di lingua, memoria e valori, si identifica con un territorio e con un potere legittimo che ne custodisce l’unità.

Un modello nato in Europa proprio tra il Rinascimento e l’età moderna, fondato sull’idea che la cultura, più ancora delle armi, sia il vero cemento della coesione e della sovranità.

Colocci fu per Raffaello un maestro illuminato. Il giovane pittore, ignaro delle lingue classiche e dei fondamenti cosmologici e teologici, trovò in lui la chiave per interpretare la sapienza antica e trasporla in immagini. Da questo incontro nacque uno dei vertici dell’arte universale: la Stanza della Segnatura, summa visiva del pensiero rinascimentale.

Nella Scuola di Atene, Raffaello volle riconoscere l’importanza del suo mentore raffigurandolo tra i protagonisti del sapere, con la sfera del cosmo nella mano destra. In quella figura si condensano la tensione verso l’ordine, l’armonia e la misura: principi che per Colocci rappresentavano la vera architettura del mondo e della mente.

Il suo pensiero ruotava attorno a un’idea fondamentale: il collezionismo non come ostentazione del potere, ma come strumento di governo del presente attraverso la conoscenza del passato. Le biblioteche e i musei, nella sua visione, non erano luoghi statici, bensì strumenti di lavoro e di interpretazione del reale, vere mappe cognitive destinate a “dilatare il mondo” e a documentarne i fondamenti.

Colocci cercava la formula universale della conoscenza, la “bellezza del numero”. Studiò la numerazione come chiave per leggere l’universo e tentò di dimostrare che l’ordinamento prevale sempre sull’ornamento.

In questo senso, la ricerca della misura del piede romano non fu soltanto una questione metrologica, ma anche simbolica: l’unità base del creato, la proporzione che unisce il mondo fisico, storico, sacro e “sopraceleste”.

Insieme a Pietro Bembo, Colocci esplorò l’armonia tra linguaggio e numero. I due umanisti analizzarono la Sestina lirica di Petrarca, scoprendo nella disposizione delle rime una sequenza numerica (6-1-5-2-4-3) corrispondente a quella dei dadi da gioco — un parallelismo che univa poesia, matematica e destino.

Nel giardino romano di Colocci si trovava l’“Arianna addormentata”, oggi conservata al Museo Archeologico di Firenze. Quella statua, che rappresentava l’isola di Citera descritta da Francesco Colonna, divenne il simbolo della bellezza dormiente e della rinascita eterna. Attraverso i secoli, il suo mito sopravvisse fino a trasformarsi nella fiaba moderna della “Bella addormentata” raccontata da Perrault, dai fratelli Grimm, e da Walt Disney.

Colocci comprese che la lingua è lo specchio della società. Fu lui a introdurre nel lessico umanistico la parola “dialetto”, dal greco dialégesthai parlare, conversare apparsa per la prima volta nel 1502 nel Calepino, il celebre vocabolario latino redatto dal frate agostiniano Ambrogio Calepio. 

La sua idea di lingua era dinamica: una tassonomia viva, in cui coesistevano idiomi e varietà locali, ciascuno portatore di espressioni e mondi culturali irripetibili.

In questo senso, Colocci anticipò una concezione moderna dell’identità linguistica: la lingua non come dominio, ma come tessuto di convivenza. Come l’ethnos greco il popolo, la stirpe essa diventa il fondamento della comunità e della memoria condivisa.

Durante il Concilio di Firenze per la riunificazione delle chiese di Oriente e di Occidente del 1438, Gemisto Pletone aveva tentato di riaccendere la fiamma del pensiero platonico, facendo della città toscana la capitale della conoscenza. Colocci raccolse quell’eredità e la tradusse in una visione umanistica del mondo, in cui cultura ed educazione erano strumenti di coesione e di trasmissione intergenerazionale del sapere.

È l’habitus dell’uomo vitruviano: la capacità di “stare al mondo” in armonia, attraverso la veracità del comportamento e l’equilibrio tra ragione e misura.

Quella stessa armonia che Raffaello mise in scena nella Scuola di Atene: una rappresentazione teatrale della vita, in cui ogni gesto, ogni sguardo e ogni figura si muovono all’interno di una coreografia cosmica, immagine visibile dell’ordine invisibile del mondo.

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