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CULTURA

PECCATO E COLPA: DALLA ANTROPOLOGIA E ALLA RELIGIONE

PECCATO E COLPA: DALLA ANTROPOLOGIA E ALLA RELIGIONE

Gli storici delle religioni e gli etnologi hanno sempre ritenuto che nelle culture primitive la morte di un individuo costituisca un evento sociale che determina una crisi non soltanto nel gruppo familiare del defunto, ma anche in quello più ampio della stirpe, del clan o della sua tribù. Un tale evento viene vissuto in questi contesti arcaici come un vulnus nel gruppo sociale, e tale evento critico non viene attribuito ad una fatalità naturale, ma ad un’azione ostile, all’aggressione magica da parte di un nemico: fantasia di persecuzione magica che rappresenta la trasformazione di un recepimento ancor più arcaico.

Nei tempi più remoti, un tale potere avverso venne individuato in uno spirito animale, in una belva che, benchè invisibile, determinava danni letali ai danni di un qualche membro del gruppo; e solo in seguito, quando i gruppi umani iniziarono a fondersi in aggregati più ampi, cominciarono a combattersi, e l’aggressore invisibile venne individuato in un individuo umano ostile che possedeva delle arti magiche attraverso le quali uccideva un membro di un gruppo diverso dal suo.

Una simile concezione dell’omicidio “magico”, venne poi estesa agli stessi membri del gruppo sociale d’appartenenza della “vittima”: gli aborigeni australiani, per esempio, fanno un’inchiesta “giudiziaria” quasi per ogni caso di morte, tendente ad individuare il “colpevole” nell’ambito dello stesso gruppo familiare o cianico del morto, mentre i Papua della Nuova Guinea attribuiscono l’evento funebre patito da una tribù alle male arti di un qualche stregone estraneo; il che porta a volte a scontri armati e sempre ad azioni magiche di “rappresaglia”.

Tuttavia, accanto alla convinzione che un decesso sia dovuto all’atto malevolo di un nemico compiuto per via magica, tale decesso viene attribuito ad una responsabilità del defunto stesso, all’aver egli violato un tabù, e quindi di aver offeso, sia pure senza intenzionalità, per semplice trascuratezza o ignoranza, un qualche potere vietante, o di aver violato una qualche prescrizione rituale. Uno sviluppo ulteriore di questa linea d’interpretazione è costituito dal concetto di mancata ottemperanza ad un obbligo verso un Potere: di non avergli dato ciò che ad esso è dovuto, e quindi di aver trattenuto o usato ciò che era di pertinenza del Potere, concepito come arbitro degli eventi.

Nasce così la concezione del “peccato”, ossia della “mancanza” come appropriazione indebita del dovuto nei riguardi del Potere. L’ idea di “peccato” è quindi, intrecciata strettamente con quella di “mancanza”, di “colpa” e di “punizione” per una tale colpa: la sua logica interna ne evidenzia la connessione con l’exitum dell’esistenza umana, sino alla sintesi Paolina secondo cui “il salario del peccato è la morte”.

E se negli stati più arcaici al carattere puramente oggettivo ed esteriore della “colpa” corrisponde una concezione del “peccato” che coinvolge gli esseri umani senza una loro diretta responsabilità, in quanto vi si incorre per l’infrazione di un divieto o di un obbligo che può anche essere ignota a chi lo commette, lo sviluppo religioso di una simile concezione conduce ad una nuova concezione del “peccato” quale “colpa” soggettiva ed interiore, nella quale acquisisce importanza fondamentale l’infrazione cosciente e volontaria a norme stabilite in via religiosa.

Infrazione che costituisce usurpazione di diritti di spettanza del Dio, uso da parte dell’uomo costituente abuso di ciò che è ritenuto di competenza del Dio. Abuso dal quale scaturisce l’ira divina ed il castigo che essa minaccia ed infligge ove non la si plachi con la penitenza, ossia con nuove attribuzioni al divino di “cose”, già di pertinenza del Dio

Un salto qualitativo causato da una tale accumulazione di attribuzioni lo si compie mediante la notorietà codificata delle “cose” riservate al divino, e quindi mediante la elencazione delle norme tabuiche e prescritte costituenti la legge sacre. Notificazione a cui logicamente si accompagna la concezione del libero arbitrio umano: la conoscenza indubbia della volontà divina pone infatti l’uomo in grado di scegliere se sottomettersi ad essa o disubbidire alla norma che da essa promana.

Ovviamente, ad una tale concezione della libertà di scelta, corrisponde quella della responsabilità dell’infrazione, ed alla volontarietà della colpa quella inevitabile punizione. Se quindi Giobbe poteva domandare ai suoi amici “consolatori” cosa mai egli avesse mai fatto per meritare la punizione divina, e i suoi amici potevano rispondergli che se lui la ignorava, la sua colpa era conosciuta da Dio, il pio giudeo dell’epoca postesilica, al quale la Legge veniva insegnata sin da ragazzo, conosceva la risposta al quesito prima ancora di porselo.

Ma per il pio giudeo, essendo praticamente impossibile non violare una delle centinaia di norme della Legge, la riflessione religiosa arrivava alla conclusione che il “peccato” si identifica con i concreti comportamenti dell’uomo, essendo determinato proprio dalla natura sua: per l’essere umano vivere significa peccare, e la colpa va intesa come dimensione costante ed irreparabile della esistenza umana.

E’ da questa base concettuale che si muove Paolo, arrivando conseguentemente ad un concetto di colpevolezza che trascende l’orizzonte personale e proclama il peccato come inerente alla natura umana in se stessa. Condizione insuperabile per l’umanità come genere, e non come sommatoria d’individui colpevoli; che egli ricollega alla trasgressione di Adamo, alla disobbedienza del primo uomo, ed alla sua violazione del tabù del conoscere. Che costituisce allora l’origine e la ragione del peccato attuale degli uomini, della loro universale condizione di peccatori, ereditata per via genetica dal primo uomo; che creato immortale da Dio, a causa di quella sua colpa ha conosciuto la morte, trasmettendone la fatalità ai suoi discendenti.

La universalità della morte è “spiegata”, quindi, da Paolo con l’universalità del peccato, la sua inevitabilità con l’inevitabilità della colpa da parte dell’uomo. Per l’uomo “civilizzato” ed a suo modo razionale, d’altra parte la consecuzione logica tra i concetti di “colpa” e di “punizione” si svolge dal primo – la violazione di un divieto – al secondo, la pena da subirsi per un tale vulnus, inevitabile contrappasso di esso. Ma per l’uomo “selvaggio” e del tutto irrazionale, la consecuzione si presenta in una prospettiva rovesciata: egli inorridiva e tremava di fronte alla prospettiva della morte, e di essa si domandava la ragione, l’evento scatenante. E lo trovava nell’idea di una violazione, di un vulnus, di un atto capace di irritare un Potere arbitro della vita e della morte dell’uomo.

La colpa era concepita quindi come un corollario dell’evento della morte, mentre successivamente il rapporto venne a rovesciarsi: in epoche “civilizzate fu la morte ad essere concepita come corollario del fatto della colpa, passò per così dire in secondo piano di fronte alla preminenza angosciante dell’idea del “peccato”. Andò a concludere che l’uomo, in quanto essere cosciente, tremava ed inorridiva di fronte al “peccato” più che di fronte alla sua punizione, alla morte: e la violazione finì per divenire di per sé fonte di angoscia, ed alla tanatofobia si sovrappose la sessuofobia.

Nell’età di mezzo, l’angoscia esistenziale dell’uomo, la sua coscienza di essere - per- la - morte, per dirla con Heiddeger, scivolò quasi in secondo piano di fronte alla sua coscienza di essere – per – la – colpa. Nella mente di Paolo il complesso fobico di colpa (peccato) e di espiazione (morte) aveva già assunto un assetto in cui il baricentro si era spostato verso il primo termine: conseguentemente il cristianesimo, nato come ideologia di una fisica vita eterna, era destinato a divenire l’ideologia della morte fisica temporale, unico evento che poteva liberare l’uomo dal suo stato esistenziale di colpa, dall’inevitabile eredità del peccato, connessa proprio alla sua natura di essere umano.

Va detto, comunque, che un tale spostamento di baricentro dalla fobia della morte a quella della sua pretesa causa, rimane a livello di coscienza o al massimo subconscio; l’angoscia del peccato costituisce il travestimento dell’angoscia esistenziale che trae la sua energia dal sapersi essere – la – morte: angoscia che nell’età di mezzo esorcizzava in via religiosa venerando la morte nei suoi travestimenti, ed offrendole in sacrificio la vita.

Il monaco che inorridiva a causa della scollatura “eccessiva” di una dama, il Savonarola che ordinava il rogo delle “vanità”, e poi scendeva nelle catacombe del suo convento dove in bel ordine erano disposti gli scheletri dei suoi defunti confratelli (con la stessa logica della stipa dei teschi nella Piazza dei Teocalli a Tenochtitilan), in realtà con questi “virtuosi” comportamenti chiedeva senza rendersene conto di essere lasciato in vita, ed inconsciamente presumeva di pagare un tale favore alla Morte con il sacrificio della Vita – scambiando l’esistere, il sopravvivere, con il vivere.

E tutto ciò avviene nel quadro di una ferrea logica. Se, infatti, il peccato, il cui salario secondo Paolo consiste nella morte, equivale nell’immaginario giudaico–cristiano alla vita stessa, intesa nell’attuazione delle pulsioni naturali dell’essere umano ereditate per via filogenetica e presentate come effetto ereditario del peccato originario.

La storia di questo enorme, mostruoso errore, costituisce la storia stessa della cultura umana sul versante psicologico e religioso, la fonte di tutti i riti sacrificali e di tutti i miti di sacrificio, nonché (fortunatamente) il terreno di scontro su cui si confrontano le visioni del mondo e della vita. E come si sia pervenuti a ciò, per cui l’essere umano angosciato dal timore della morte si sia deciso a rinunciare a vivere nella sua natura pur di sopravvivere nella sua alienazione, abbia preteso rinunciando alla vita autentica di prolungare un’esistenza inautentica, che tuttavia lo sollevava dall’angoscia della morte camuffando la morte con una maschera misericordiosa e clemente, costituisce il tema di ogni riflessione che voglia essere euristica e si proponga di connettere il dato empirico dell’antropologia culturale con quanto da un tale materiale può essere desunto dalla riflessione logica – ossia che si proponga insieme come scienza e come filosofia della scienza.

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