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Opinioni

DI FRONTE A UNA CRISI  ENORME E' ANCOR PIU' INDISPENSABILE UN NUOVO PATTO SOCIALE

DI FRONTE A UNA CRISI ENORME E' ANCOR PIU' INDISPENSABILE UN NUOVO PATTO SOCIALE

di Giuseppe Augieri

Il Covid e lo scempio fatto dalla pandemia e dal correlato rallentamento della produzione; la guerra in Ucraina e l’utilizzo di uno strumento - spuntato - come le sanzioni alla Russia; la politica finanziaria della BCE mossasi in ritardo e, dopo, inutilmente drastica: motivi tutti di indebolimento forte dei fondamentali economici. Stiamo scontando tutto questo ai margini di un processo di maggior rischio di aumento dei costi come effetto delle probabili ritorsioni del mondo arabo per la guerra in Israele. La guerra del Mar Rosso è solo l’inizio. Un altro segno del superamento del globalismo e della nuova guerra – questa già in pieno svolgimento – sui mercati.
Il contesto è preoccupante: ma rischia di diventare drammatico. I due indirizzi assunti dalla CEE – quella sulle abitazioni-green e ancor più quella sul riarmo – davvero fanno temere per una rottura degli equilibri sociali. Indirizzano investimenti ma soprattutto impegnano risorse imponenti. Pensare di crearli dal nulla è solo follia: verranno da altri attuali utilizzi. Un dramma, per noi italiani più che per altri.
In aggiunta alle osservazioni dell’ISTAT, o per meglio dire leggendo bene i suoi dati, la criticità della povertà assoluta si accompagna alla erosione – in prospettiva l’abbattimento – dei risparmi familiari. I patrimoni della classe media, quella che spinge in alto il PIL, sono stati falcidiati e la tendenza è in peggioramento. Il Nord, il pezzo di Italia più mitteleuropea, con occupazione più diffusa, con infrastrutture più adeguate e fabbriche, è in affanno: ha perso capacità di spesa più che nel resto del Paese. Dove le incapienze, talvolta drammatiche, aumentano. Gli interventi effettuati fin qui, e non solo negli ultimi mesi, non hanno risolto assolutamente queste ultime: e non avrebbero mai potuto risolverle perché, come in tutte le emergenze, curano i sintomi e non la malattia. Ma contemporaneamente hanno creato aspettative che sono andate deluse e senso di frustrazione in chi quegli interventi riservati “ad altri” – ma che indirettamente comunque lui paga – ha visto anche un abbandono della propria rappresentanza.
Da noi, dunque, ad una situazione di partenza di criticità sociale, ben nota ed antica, si accompagna anche la tendenza di risposte “conservative” di quella parte della stratificazione sociale, sulla quale più si deve inevitabilmente puntare per dare un futuro al nostro debito-mostre. Come è noto le risposte conservatrici – per ora solo attendiste - sono come una pentola che bolle: se non si regola il gas, o ancora peggio ci si mette sopra un coperchio, diventa pericolosa. Se poi il coperchio è a chiusura ermetica, può esplodere. Sto parlando di reazioni di una classe sociale che non è “proletariato” (se ancora ha senso questa definizione) e dunque ha mezzi per contare: e che concepisce la “rivoluzione” come modifica delle situazioni in essere con l’utilizzo di strumenti che sono del tutto diversi da quelli immaginati dai ceti meno abbienti. Domanda di politica conservatrice (reazionaria non lo credo), ed anzi di qualche passo indietro. Con una efficacia che nessuna manifestazione o protesta di piazza può impedire. A meno di credere nella possibilità di rivoluzioni armate. Ipotesi che, se non fosse tragica, sarebbe comica.
Anche perché questi processi di economici hanno avuto in comune tutti un dato: se la media delle situazioni mostra una generale decrescita, quest’ultima è frutto di povertà che si allargano ma anche di ampi guadagni realizzati. Vale per gli aiuti dati ai tempi del Covid; vale per il bonus sulle ristrutturazioni (non solo il 110%); vale persino sul Reddito di Cittadinanza. Al di là delle scelte fatte, il loro utilizzo speculativo è stato facilitato da procedure operative carenti di tutto: dalla individuazione della platea degli usufruenti ai controlli. Fenomeni forse limitati ma non tanto da non creare deformazioni al vivere in comune. Dal punto di vista economico, essendo ovviamente congiunturali, determinano la spinta a renderli, se non strutturali, quanto meno più lunghi nel tempo ed oltre ogni limite di compatibilità. Risultato: malcontento in chi non riceve più quello che ha avuto e in chi ha pagato in termini di “solidarietà”.
La tensione sociale è dunque, a mio parere, giunta al livello di sicurezza. La violenza ne è un sintomo. Critiche, analisi, proposte devono tenerne conto: l’uscita, altrimenti, non sarebbe indolore ed anzi sarebbe pessima per chi oggi sta in condizioni peggiori.
Combatto contro le tentate semplificazioni di situazioni complesse: non è tempo per campagne elettorali perenni. Perciò mi batto perché si facciano esami omnicomprensivi delle situazioni - perché parcellizzare il campo di analisi significa certezza di non capire bene e di rispondere ancora peggio - e perché non ci si limiti ad esprimere solo critiche ma si portino anche proposte. Con tanta ideologizzazione in meno.
Va ripreso il senso del patto che caratterizzò il programma di Bad Godesberg: un nuovo patto sociale nel quale lo scambio produzione/welfare sia rinegoziato, aggiornandolo alle situazioni che sono mutate: quelle dei mercati, quelle internazionali, quelle tecnologiche a partire dalla novità AI.
Ma bisogna creare le premesse: la prima è che deve ritornare il concetto di Stato. Questi processi – anch’essi rivoluzionari – non sono delegabili o attribuibili a una sola costola ma devono esser affrontati da ogni espressione dello Stato, quella istituzionale, quella politica, quelle delle forze intermedie. Accordi e non scontri, se non quelli indispensabili. Altrimenti vincerà il più forte: non noi che ci professiamo progressisti e riformisti.
 
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