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Internazionali

SULLA CINA E DINTORNI

SULLA CINA E DINTORNI

di Vito Sibilio

Non sono mai stato né mai sarò un fan del Comunismo cinese. Se esso era aberrante con la sua Rivoluzione Permanente, che ha metastatizzato con il Sessantotto per tutto l’Occidente, oggi è grottesco con la sua Economia socialista di mercato. Il povero Marx si sarà rivoltato tra le fiamme dell’inferno per aver visto sovvertire l’ordine della realizzazione del suo mondo perfetto per ben due volte, oltre la Grande Muraglia: prima la Rivoluzione in un paese non industrializzato e poi la fondazione del capitalismo in un Paese retto dalla dittatura del Proletariato. Del resto, come si può avere fiducia di uno Stato che, pur avviandosi al riformismo tramite Deng Xiaoping, ha mantenuto intatto il dispotismo, sul cui altare ha immolato le vittime di Piazza Tien An Men? Certo, non sono le decine di milioni di morti del maoismo, né le centinaia di milioni di detenuti di quel regime, né i milioni di morti per fame della collettivizzazione agraria, ma il Comunismo cinese di Deng sta a quello di Mao come quello di Breznev stava a quello di Stalin. Oggi poi anche il correttivo della direzione collegiale a tempo è stato tolto e l’inossidabile Xi Jinping si candida ad essere presidente a vita, come e più di Mao. Tra la Cina Popolare e gli USA, ovviamente, sceglierei sempre mille volte gli Usa. Credo che sceglierei qualsiasi regime a uno comunista. La Cina Popolare ha i campi di concentramento con milioni di prigionieri. Opprime il Tibet. Perseguita le religioni. Controlla capillarmente la vita dei cittadini. Epura ciclicamente gli oppositori di Partito. E’ un regime illiberale che ha alcune connotazioni di socialismo, laddove questo è da considerarsi un anelito alla soluzione dei problemi sociali. O, meno idilliacamente, è una dittatura bolscevica resa ancor più asfissiante dal dispotismo asiatico.

Tuttavia la Cina è così da decenni. Per cui presentarla come il nemico pubblico numero uno, adombrato dietro la Russia, è alquanto disonesto intellettualmente. Tra noi e loro non è sorta ora una distonia valutativa dei diritti umani, al posto di una precedente sintonia. Non è mai esistita. Non esisteva quando gli USA la preferirono a Taiwan assegnandole il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, né quando le vendettero miliardi di titoli del loro debito pubblico, né quando progettarono di inglobarla nel loro TTIP, né quando Xi Jinping venne accolto trionfalmente a Davos come paladino del libero mercato – mentre Donald Trump, eletto democraticamente, era trattato come un reietto. Oggi la crisi pandemica ha ristretto il mondo. La presunta fuga cinese del virus del covid ha dato fiato alla propaganda contro Pechino. La lotta per l’egemonia mondiale, legata alla crescita impetuosa dell’economia cinese e al declino inesorabile di quella Usa, si è dunque sostanziata di differenze ideologiche in chiave propagandistica.

L’epicentro è la questione di Taiwan. Che la Cina nazionalista di Chiang Kai Shek fosse quella legittima, mi sembra evidente, visto che Mao andò al potere con la forza e nessuna libera elezione lo ha confermato. Che i cinesi di Taiwan non vogliano finire sotto Pechino, mi sembra talmente ovvio che non vado nemmeno a dimostrarlo. Che la Cina popolare, con la sua potenza, si sia imposta nelle relazioni internazionali a scapito di quella insulare, è altrettanto ovvio, come lo è che la tratti da provincia ribelle. Ma il dato di realtà è che quella provincia sta quieta sotto lo scudo americano dal 1948. Né si capisce perché Pechino dovrebbe forzare la mano proprio adesso, arrivando inevitabilmente alla guerra mondiale. Essa ha bisogno di pace per creare una sfera di influenza stabile dietro l’acronimo dei BRICS. E’ invece l’Impero in declino che vorrebbe colpire l’avversario ancora fragile di vera potenza, prima che l’armata dello Yuan conquisti il mondo, le risorse della Siberia affluiscano sul Fiume Giallo, le sonde cinesi solchino lo spazio e l’energia atomica ripensata dai laboratori del Dragone prenda il sopravvento.

Così gli USA, dopo aver attirato in una imboscata la Russia in Ucraina, cercano di fare lo stesso con la Cina a Taiwan. La nascita dell’UKAUS dimostra il dolo del progetto, in quanto avvenuta prima di questa paventata crisi del Mar Giallo.

Tuttavia non vi è alcuna ragione per immaginare che la sicurezza di Taiwan sia oggi più in pericolo di prima. A meno che esso non serva per concentrare le forze in uno scacchiere, quello asiatico orientale, dove oramai l’influenza USA è confinata essenzialmente nelle parti insulari. La speranza dissennata di una guerra lampo contro il Dragone è ancora più folle se comparata a quella già fallita contro l’Orso russo. Fatta la premessa che Taiwan deve rimanere libera e che la caduta del Comunismo cinese sarebbe un bene per il mondo, va detto che forzare la mano per un conflitto nell’area e sostituire quel regime con una cleptocrazia teleguidata sarebbe ad un tempo criminale e folle. Una scelta che si porterebbe dietro sicuramente una guerra tra le due Coree, probabilmente un conflitto indo-pakistano e uno tra India e Sri Lanka e anche la destabilizzazione dell’Indocina.

A meno che ovviamente non si speri di depopolare l’area con armi di distruzione di massa, come certa cultura politica esoterizzante va da tempo invocando.

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