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Opinioni

IL FANTASMA DEL VATICANO, i Papi e il Caso Orlandi (parte I)

IL FANTASMA DEL VATICANO, i Papi e il Caso Orlandi (parte I)

di Vito Sibilio

Il fantasma di Emanuela Orlandi è una costante nella pubblicistica vaticana. Avendo di recente scritto su queste colonne del vatileaks ai tempi di Benedetto XVI, non ho potuto non porre mente anche al suo caso, che è entrato in quel dossier, constatando che esso, trasversalmente, ha attraversato tre Papati, configurandosi sempre come strumento di pressione, ma in modi completamente diversi da qualsiasi altro, anche perché è stato sempre travisato e strumentalizzato. Forse è bene rammentare il modo in cui il Caso Orlandi è realmente nato, per capire chi e perché lo ha usato e ancora lo tiene nel proprio arsenale come arma puntata sul Vaticano.

Il 13 maggio 1981 Alì Ağca e Oral Celik spararono a Giovanni Paolo II per ucciderlo, ma riuscirono solo a ferirlo. Dietro questi due terroristi, membri dell’organizzazione dei Lupi Grigi di Abdullah Čatli e Musa Serdar Celebi, reclutati tramite la mafia turca di Bekir Celenk, c’erano quattro funzionari del servizio segreto bulgaro, il DS, ossia Ivan Tomov Dontchev, Serghei Antonov, Teodor Vassilev e Teodor Ayvazov, incaricati di organizzare l’attentato. Dietro il DS, a preparare il piano, vi era Günther Bonsack dell’HVA, ossia il servizio segreto, della DDR, capeggiato da Markus Wolff e meglio noto come STASI, sebbene questo acronimo indichi il Ministero della Sicurezza di Stato. Al vertice della piramide vi erano i mandanti, ossia il direttore del KGB, Yurj Andropov, quello del GRU, Nikolaj Orgakov, il segretario politico agli Organi (ossia i servizi segreti), Mikhail Gorbacev, il ministro della Difesa Ustinov e ovviamente il segretario del PCUS, Leonid Breznev. L’URSS  e l’intero Patto di Varsavia si erano mossi per fermare il Pontefice polacco la cui azione destabilizzava dalle fondamenta il blocco sovietico. La Polonia era sempre stata l’anello debole della catena comunista e l’elezione di Karol Wojtyła, già uomo di punta di quell’opposizione popolare pacifica politico-religiosa che fu poi Solidarność, aveva reso il Paese altamente a rischio per il bolscevismo internazionale. La fitta rete di agenti e confidenti dei servizi del Patto di Varsavia, innervata in tutto l’Occidente, Italia e Vaticano compresi, aveva fornito un indispensabile apporto. Licio Gelli, agente doppio di KGB e CIA dalla fine della II Guerra Mondiale, garantì lo smantellamento dei servizi segreti italiani, che avrebbero potuto difendere il Papa, favorendo il ritrovamento degli elenchi incompleti della P2 nel quadro dell’inchiesta su Michele Sindona. L’attentato era il fulcro dell’Operazione Papa, così chiamata a Mosca, divisa a sua volta in due sottofasi, Pagoda e Infezione, comprendenti anche altre azioni criminali, come la diffamazione del Pontefice, eventuali altri assassini se necessari e probabilmente il fallimento indotto dell’Ambrosiano, avvenuto poco dopo i fatti del 13 maggio. Ma l’attentato fallì e Giovanni Paolo II sopravvisse.

Sulla scena del crimine fu arrestato il solo Ağca, il quale, dopo la Prima Inchiesta, nel corso della quale rifiutò qualsiasi collaborazione, fu condannato all’ergastolo. Nel maggio 1982, ad un anno dall’attentato, Ağca, convinto che non lo avrebbero fatto evadere o che non avrebbero mai liberato mediante uno scambio di ostaggi, come dichiarò lui stesso, cominciò a collaborare, delineando la Pista Bulgara, ossia ricostruendo la trama contro il Papa, senza però salire oltre il secondo livello di complicità, quello appunto dei servizi di Sofia. Iniziò così la Seconda Inchiesta, terminata nell’ottobre del 1984 col rinvio a giudizio di Ağca e di coloro che egli aveva chiamato in causa. In realtà, i suoi mandanti non avevano intenzione di abbandonarlo, anzi nei loro piani vi erano altre manovre per danneggiare il Pontefice polacco e anticomunista. Quello che avvenne dopo spinse il killer turco non a ritrattare, ma a danneggiare quanto da lui rivelato, inquinandolo con falsità palesi e con la simulazione della pazzia. Questo sia nel processo del marzo 1985 – giugno 1986 che nella Terza Inchiesta, affidata a Rosario Priore e che preluse al processo di appello, celebrato dal novembre al dicembre 1987 e nel quale, come da copione, venne condannato il solo Ağca, poi graziato nel 2000 da Carlo Azelio Ciampi col consenso di Giovanni Paolo II, e rientrato in Turchia dove, dopo aver scontato altre pene per suo ulteriori delitti, dal 2010 è libero. Alla base di questa soluzione compromissoria di una inchiesta che poteva ribaltare il mondo ci fu, tra le altre cose, proprio il Sequestro Orlandi, come hanno sostenuto e dimostrato i magistrati inquirenti Ferdinando Imposimato, Ilario Martella, Rosario Priore e ricercatori ben ammanicati col mondo dei servizi come Pierre de Villemarest. Anche io, nel mio piccolo, ne ho parlato nel mio volumetto sull’Attentato a Giovanni Paolo II. Il Sequestro Orlandi non fu il solo dissuasore adoperato da Mosca verso Roma e il Vaticano – si pensi a quello di Mirella Gregori o al Caso Farsetti-Trevisin – ma noi ci dilungheremo solo su di esso. La ragazzina fu l’ostaggio in cambio della cui incolumità la Pista Bulgara doveva essere abbandonata e, calmatesi le acque, Alì Ağca rilasciato. Ma andiamo per ordine.

Nel 1983 Andropov, oramai capo dell’URSS, Ivaschoutine e Orgakov sovrintesero alla delegittimazione di Giovanni Paolo II, alla vigilia dei suoi viaggi in Polonia e Centroamerica. L’azione sovietica avvenne nel disimpegno dei servizi segreti occidentali: nel mese di maggio del 1983 la CIA produsse una valutazione ufficiale sulla Pista bulgara, in cui comunicava, mentendo, che dietro di essa non vi erano né i bulgari  né i sovietici. La firma era del deputato direttore dell’intelligence Robert Gates, poi direttore della CIA stessa (1991-1993). La CIA dunque seppe sin dall’inizio quel che si andava facendo contro il Papa a Roma e ancora ne conserva documentazione.

Il 28 maggio 1983 Jordan Lyubomir Ormankov e Stefan Markov Petkov, entrambi agenti segreti bulgari, di cui il primo anche magistrato e il secondo responsabile dell’ingresso degli stranieri in Bulgaria e referente delle attività delle mafie straniere nel Paese, arrivarono in Italia passando per Trento. Markov Petkov era il luogotenente del generale Grigorij Shopov, a sua volta collaboratore stretto di Todor Živkov, segretario del Partito Comunista Bulgaro. I due agenti bulgari vennero per una rogatoria internazionale nell’ambito dell’inchiesta sull’attentato al Papa. Ripartirono il 1 giugno e tornarono il 20. In quei giorni molto probabilmente sovrintesero personalmente alla più abietta delle azioni legata all’attentato a Giovanni Paolo II.

Il 22 giugno 1983 infatti venne appunto rapita Emanuela Orlandi, quindici anni, cittadina dello Stato della Città del Vaticano, tra le 18,45 e le 19,00, adescata all’uscita dalla scuola di musica di Sant’Apollinare da un uomo in BMW con la promessa di un lavoro veloce e redditizio per la Avon. A segnalare le sue abitudini ai sequestratori furono due basisti vaticani della STASI, Eugen Brammerz e Aloïs Estermann, il primo giornalista dell’Osservatore Romano e benedettino, il secondo guardia svizzera e poi capo dello stesso Corpo d’Armata, nominato alla vigilia del suo assassinio.

Il Sequestro Orlandi avvenne durante il trionfale viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia, dal 16 al 23 giugno 1983. Il viaggio era stato un successo e aveva dimostrato che i Polacchi non avevano nessun desiderio di accontentarsi delle riforme autoritarie di Wojchieck Jaruzelsky. Nonostante l’operazione Aurora I, con cui Andropov aveva cercato di imbrigliare, più ancora che nel viaggio precedente del 1979, l’impatto del Papa sui suoi connazionali mediante infiltrati, poliziotti, falsi giornalisti e restrizioni alla libertà di movimento, Giovanni Paolo II si era dimostrato ancora una volta il vero capo della Polonia libera Egli non mancò di mostrare misura, ricevendo Lech Wałesa, capo di  Solidarność. solo in forma privata, sapendo che una rivoluzione polacca avrebbe messo in pericolo la pace mondiale. Nikolaj Orgakov era alla testa dell’ala intransigente del Politburo del PCUS, che temeva l’aggressività di Ronald Reagan e disperava di colmare il gap tra URSS  e USA negli armamenti più tecnologicamente avanzati. Costoro ritenevano che se la guerra in Europa fosse scoppiata subito, l’URSS, grazie alla sua superiorità negli armamenti convenzionali, l’avrebbe vinta facilmente. In questa prospettiva, la crisi polacca poteva essere un buon pretesto. Naturalmente in caso di guerra la stessa Polonia, assieme agli altri satelliti sovietici, sarebbe stata distrutta dalla reazione atomica della NATO. Giovanni Paolo II lo sapeva, e lo sapevano anche Jaruzelsky e i leader dell’opposizione. In effetti già si parlava di un governo di coalizione tra Solidarność e il POUP. Il viaggio del Papa fu quindi un viaggio di appeasement, ma in Occidente esso fu visto con freddezza dalla Commissione Trilaterale e dalla Francia, mentre fu messo in ombra proprio dal Sequestro Orlandi, che rimbalzò mediaticamente in tutto il mondo, amplificato a dismisura dalla rete di giornalisti al servizio dei sovietici in Italia e in Europa, rivelata poi dal Dossier Mitrokhin. Erano gli stessi giornalisti reticenti a tirare in ballo i sovietici nell’attentato al Papa.

La ragazza fu un obiettivo di ripiego, perché la figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera di Giovanni Paolo II, e la moglie e la figlia di Camillo Cibin, capo della Gendarmeria, erano obiettivi troppo protetti. Pedinata da tempo, al momento del sequestro era in compagnia di un’amica che non fu mai identificata.

I famosi telefonisti Pierluigi e Mario erano probabilmente delinquenti locali incaricati di far perdere tempo, con le loro telefonate contenenti informazioni svianti sulla Orlandi, fino a che la ragazza non fosse portata fuori Italia.

Ormankov e Markov Petrkov ripartirono il 24 giugno. Ağca, conscio del fatto che i due sequestri erano stati compiuti per fare pressione sull’Italia a suo favore ma anche per lanciare a lui un messaggio intimidatorio, dal 28 giugno cominciò a ritrattare le sue deposizioni e a mescolare cose vere e cose false nelle sue testimonianze. Il SISMI, in una nota del 25 maggio 1983, segnalò l’ingresso in Italia dei due bulgari, qualificati come spie venute ad inquinare le prove. Tuttavia nulla si mosse per fermare queste pesanti interferenze straniere, in nome della realpolitik.

Il 3 luglio il Papa, consapevole della vile manovra in atto ai danni della Chiesa sulla pelle di una povera ragazzina, lanciò il primo di otto appelli per la Orlandi, alludendo ad un sequestro in modo coraggioso. Il 5 luglio uno slavo chiamò la Sala Stampa del Vaticano e chiese che Ağca fosse rilasciato in cambio della Orlandi, formulando così una richiesta irricevibile e peraltro non esaudibile direttamente dalla Santa Sede; lo stesso giorno un uomo con l’accento americano chiamò Casa Orlandi e avvisò che il Vaticano si sarebbe messo in contatto con loro: era iniziato un doppio pressing sul Papa, tramite il ricatto e tramite la strumentalizzazione delle speranze trepide della famiglia della ragazza. In realtà erano già stati attivati contatti segreti con la Segreteria di Stato (una linea segreta predisposta a richiesta con il cardinale Agostino Casaroli, che però rimase a lungo muta), ma non se ne seppe né se ne ricavò mai nulla (gli inquirenti italiani furono sempre depistati dalle talpe che operavano in Vaticano): evidentemente le richieste formulate erano diverse da quelle pubbliche ed anch’esse inaccettabili, oppure furono accettate, ma senza la sicurezza della contropartita della restituzione della ragazza, che infatti non avvenne mai.

Una ulteriore ipotesi è che la Segreteria di Stato abbia preso impegni sull’insabbiamento della Pista Bulgara, ottenendo in cambio la salvezza della vita ma non la restituzione della Orlandi. Infine, si può immaginare che il rilascio dell’ostaggio vaticano sia stato differito alla fine del processo, solo che al termine di esso era scomparsa anche l’URSS, per cui sotto le sue macerie rimase occultata anche la sorte della ragazza. A mio avviso, di queste quattro la terza ipotesi è quella più plausibile.

In ogni caso questi contatti furono rivelati dai sequestratori il 6 luglio 1983 all’Ansa, col chiaro intento di mettere in imbarazzo il Vaticano e mostrando che essi non tenevano tanto ai contatti riservati stessi quanto al loro impatto mediatico.

Il 17 luglio 1983 i sequestratori fecero trovare, dopo un tentativo andato a male il 14 per intervento di una mano misteriosa che la sottrasse, un’audiocassetta con la solita richiesta a favore di Ağca e con incise le urla della ragazza, sottoposta presumibilmente a violenza. Forse la sottrazione servì ad amplificare l’effetto del ritrovamento così differito e si dovrebbe addebitare alle talpe sovietiche in Vaticano come Estermann. Ma le prove dell’esistenza in vita dell’ostaggio furono sempre indirette. I sequestratori ottennero che il nastro fosse mandato in onda alla RAI.

Nonostante la moltiplicazione delle richieste, Ağca – già screditato come teste in quanto era stato complice di quelli che poi erano diventati sequestratori della ragazzina - rifiutò lo scambio con l’ostaggio, forse spaventato dal fatto che fino ad allora aveva collaborato con la giustizia italiana, tanto che i rapitori della Orlandi affermarono che lo scambio doveva avvenire anche se lui lo rifiutava. La data fissata era il 20 luglio. Ma alla scadenza si continuò a trattare. Infatti chi aveva sequestrato la Orlandi sapeva bene che l’attentatore del Papa non poteva essere rilasciato. Si faceva molto teatro, ma era dietro le quinte che avvenivano le cose importanti.

Il SISDE di Vincenzo Parisi, che all’inizio minimizzò il Sequestro Orlandi e parlò di tratta delle bianche (avviando un filone di depistaggio ancora attivo per vita propria), dovette dichiarare che smetteva di occuparsi del caso, dopo la pubblicazione del nastro, evidentemente per non inasprire i sequestratori, ai quali dunque portava riguardo e di cui aveva timore, quasi rappresentassero una potenza sovrana e superiore. Il Vaticano dovette inoltre dichiarare che non aveva potere sulla detenzione di Ağca. Esso dovette persino piegarsi a collaborare ai depistaggi, per screditare la Pista Bulgara.

Emblematicamente, l’Osservatore Romano, a fine luglio, mise in collegamento il rapimento della Orlandi al crack dell’Ambrosiano. La manovra, nella sua attitudine distrattrice, echeggiava quella del colonnello Yona Andronov, responsabile della Literaturnaja Gazeta, periodico sovietico su cui si tentava di attribuire alla CIA la responsabilità dell’attentato al Papa, contando sulla non belligeranza americana in questa guerra spionistica in cui si giocava al rialzo in modo sempre più scorretto. Iniziò così un nuovo tentativo di depistaggio che sarebbe stato ripreso in grande stile più tardi, facendolo confluire con quello tentato dall’Osservatore Romano, e che è anch’esso ancora attivo.

Il 29 luglio arrivò una lettera dattiloscritta e firmata dalla Orlandi che descriveva le sevizie a cui era stata presumibilmente sottoposta e ne paventava la morte se le richieste dei sequestratori non fossero state accolte. La guerra psicologica continuava. Lo stile della lettera era identico al parlato della Orlandi, ma la mancanza di scrittura impediva di appurare la reale condizione della ragazza o di individuare altri indizi.

continua

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