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Cultura

BONAPARTE LADRO D'ARTE? LA NASCITA DEI MUSEI MODERNI

BONAPARTE LADRO D'ARTE? LA NASCITA DEI MUSEI MODERNI

di Aldo A. Mola

Napoleone “en marche”

Fra i tanti aneddoti su Napoleone Bonaparte uno è assai gustoso. Conversando con non si sa chi l'Imperatore (Aiaccio, 1869 - Isola di Sant'Elena, 1821), “francese” solo perché un anno prima della sua nascita il genovese Banco di San Giorgio aveva venduto la Corsica alla Francia, sibilò che gli italiani sono tutti ladri. L'interlocutore pare abbia ironizzato giocando sul suo cognome: “Non tutti. Solo buona parte”. Ciuffetto da antico romano sulla fronte, occhio gelido a labbra strette Napoleone abbozzò. Conosceva il suo “mestiere”. Non era un “ladro”, ma il punto di arrivo della Grande Rivoluzione. L'Arte andava “mostrata al popolo”, proprio come la “Rivoluzione”, che Massimiliano Robespierre aveva posto alla testa della “processione” in onore dell'Ente Supremo. Amico di Augustin, fratello dell'“Incorruttibile” (perciò finì incarcerato, a rischio della vita), Napoleone completò il grande disegno: la transumanza dall'ancien régime allo Stato ispirato alla solenne dichiarazione dei “diritti dell'uomo e del cittadino”.

   Abolì il complicatissimo calendario repubblicano, croce senza delizia di chi doveva redigere atti pubblici, represse giacobini in ritardo e cospiratori che ancora pretendevano l'“uguaglianza” e avviò “libertà” e “fraternità” (altra cosa dalla utopica fratellanza) sui binari del consolato e dell'Impero. Si proclamò successore di Carlo Magno. Avvolto in un passato millenario fu l'Uomo Nuovo. Chiesto di raffigurarlo in una statua, Antonio Canova lo propose come si vede a Palazzo Brera in Milano: nudo. Era l'incarnazione del “Genio del mondo”, come poi annotò Hegel. Arbitro assiso tra due secoli, il Settecento dell'Aristocrazia illuminata e l'Ottocento delle “masse”, decisivi per la storia universale, come alla sua morte ne scrisse Alessandro Manzoni. Dopo di lui la Francia rimase perennemente “en marche”, sino a Emmanuel Macron e alla sua Ninfa Egeria, Brigitte.

   Formato nella lettura dei classici greco-romani, da giovanissimo assunse a modello Caio Giulio Cesare, l'unico “predecessore” con il quale meritasse confrontarsi. Annibale e Scipione l'Africano erano stati grandi capitani in guerra, ma entrambi erano finiti esuli; uno addirittura costretto a darsi la morte. Non portavano bene. Alessandro era stato grandissimo sui campi di battaglia. Ma aveva almeno due macchie incancellabili: l'incendio e distruzione di Persepoli e l'uccisione, in uno scatto d'ira, di uno tra i suoi amici più cari. A differenza di tanti condottieri delle età precedenti e dei due secoli successivi, sin dall'inizio delle imprese da lui capitanate Napoleone concesse alle sue armate di sfogare sui vinti gli appetiti dell'anima “vegetativa” mentre egli si dedicava al trionfo di quella “razionale”: ordinare. Che non significa imporre ma educare. Passare da uno all'altro stadio del “cammino umano”. Con lui si aprì il secolo della Pedagogia. L'Illuminismo aveva scrostato da pregiudizi arcaici. Ora occorreva edificare.

   Napoleone fu l'arco portante dalla distruzione alla costruzione. I francesi del giovane generale, ancora Buonaparte, puntarono sul forte di San Leo per liberare Giuseppe Balsamo, noto come conte di Cagliostro, uno dei miti di fine Settecento. Ma vi giunsero quando ormai il “Grande Cofto” era morto dopo anni di durissima reclusione nel “pozzetto” ove era rinchiuso e spesso selvaggiamente bastonato. Ne cercarono invano le spoglie. Era giusto che non venissero trovate. Era lo Spirito, l'inventore del Rito Egizio, il richiamo dell'Oriente che attendeva di essere s-velato e ri-velato. Quando salpò verso l'Egitto per colpire l'Inghilterra nelle sue remote colonie Napoleone portò con sé militari ansiosi di vittorie e soprattutto scienziati delle più diverse discipline, archeologi e artisti. Come lui, essi andavano in cerca del Sapere arcano, sino a quel momento investigato in “libri proibiti” avidamente letti: altra cosa dal vederlo nei suoi veri lineamenti nelle terre dei Magi, là dove era nato e fiorito. Ne rimase affascinato il generale Menou, mille anni di nobiltà alle spalle, futuro governatore del Piemonte francesizzato, con tanto di tenda allestita per la moglie islamica.

Gli orrori dei sanculotti

   Il flusso della storia segnata da Napoleone il Grande si coglie nell'avvincente saggio di Giorgio Enrico Cavallo su Napoleone ladro d'arte. Le spoliazioni francesi in Italia e la nascita del Louvre (ed. D'Ettoris). Il libro prova l'eterogenesi dei fini. Sin da quando appena ventisettenne piombò in Italia, all'imposizione di enormi tributi ai vinti e ai pavidi unì la massiccia “deportazione” di opere d'arte. Dopo il 18 Brumaio 1799, l'irruzione in Piemonte dall'invalicabile Gran San Bernardo e la vittoria di Marengo del giugno 1800, egli riprese sistematicamente la Grande Opera. Mentre disegnava e ridisegnava la carta politica dell'Italia, prima repubbliche poi principati e regni di fantasia (come quello “di Etruria”) e l'invenzione del regno d'Italia nel 1805, che affidò al figlio adottivo Eugenio di Beauharnais, dopo essersene proclamato sovrano nel Duomo di Milano con tanto di Corona Ferrea, l'Imperatore riprese a far rastrellare il meglio per il vagheggiato “Museo Napoleone”.

   Come correttamente ricorda Cavallo, nella sistematica di spoliazione degli “oggetti d'arte” Napoleone fu preceduto dall'ascesa dei “vandali” al potere sulla Francia: i sanculotti che dall'agosto 1792 cominciarono ad abbattere le opere emblematiche della monarchia, a cominciare dai monumenti equestri di Luigi XIV e di Luigi XV e dalla statua di Enrico IV, benché gli si dovesse l'editto di tolleranza di Nantes a beneficio degli ugonotti. A Parigi la cattedrale di Notre-Dame venne mutata in Tempio della Ragione, con eliminazione sistematica delle sculture e di 24 monumenti sepolcrali su 25. Poteva andare peggio. Claude-Henri di Saint-Simon, precursore del cosiddetto socialismo utopistico, si era offerto di acquistare l'“immobile” per farlo demolire a sue spese. Non bastasse, il 1° agosto 1793 la Convenzione repubblicana ordinò la distruzione delle tombe reali. L'amministratore della basilica reale di Saint-Denis narrò puntualmente la profanazione dei feretri, la riesumazione e lo scempio delle salme, il furto e la dispersione dei gioielli. Il poco che venne salvato dalla barbarie finì al Museo dei monumenti francesi diretto da Alexandre Lenoir. Anche il quarantenne vescovo “costituzionale” Henri Grégoire, pur allineato con la “rivoluzione”, deplorò il “vandalismo” e propose come rimediare. Ricordò che “des furieux” avevano progettato di incendiare le biblioteche pubbliche e che era stata fatta man bassa di libri, quadri, monumenti che recavano le insegne della religione, dell'età feudale e della monarchia con danni irreversibili e incalcolabili. Poiché aveva cercato di opporsi allo scempio Grégoire era stato bollato come fanatico. Gli eccessi non conobbero limiti. In molti casi, i cadaveri dei sovrani, spesso irriconoscibili, furono sottoposti a demenziali processi d'accusa. Quello di Enrico IV subì la decapitazione. La testa, ricorda Cavallo, “ricomparve” solo nel 2008 e fu al centro di indagini per accertarne l'identità. Ne nacquero anche, aggiungiamo, polemiche retrospettive, rapidamente sopite perché politicamente scorrette e lesive del mito di Marianne. Nella memoria corrente la Rivoluzione doveva essere solo luminosa, monda dalle sue pagine più orrende: le feroci stragi del settembre 1792, quando la principessa di Lamballe, iniziata alla Massoneria, venne sventrata e decapitata, la repressione dei vandeani, l'esecuzione capitale di Luigi XVI e di Maria Antonietta, ghigliottinati…

Il ritorno all'Ordine

Quegli orrori andavano cancellati dal ricordo e dimenticati. Allo scopo Napoleone mirò a fare di Parigi il Tempio del Bello con l'allestimento del Museo intitolato al suo nome, affidato alle cure del barone Dominique Vivant Denon, già affiliato alla “Parfaite Réunion” del Grande Oriente di Francia come poi la maggior parte dei marescialli, ammiragli, prefetti e notabili dell'Impero. Il Louvre, scelto quale “contenitore” delle meraviglie fatte affluire a Parigi dai Paesi via via assoggettati (non solo l'Italia), divenne meta del primo grande turismo d'arte. Vi accorsero anche i britannici. Proprio l'inglese Maria Luisa Caterina Cecilia Hadfield sposata con Richard Cosway, di vent'anni più anziano, nata a Firenze da una famiglia anglicana ma educata da suore cattoliche, ritrasse tanti capolavori del Museo Napoleone. Ma, narra Cavallo, non ottenne il successo sperato.

   Quando il Louvre risultò saturo dalla “smodata mole di oggetti” concentrati in Parigi l'imperatore ordinò l'allestimento di musei dipartimentali, a prosecuzione del gigantesco progetto di inculturazione degli abitanti dell'impero attraverso la moltiplicazione dei licei. In ogni giorno, alla medesima ora, i docenti impartivano agli allievi le identiche lezioni per formare i futuri insegnanti e funzionari del regime napoleonico, mentre nei collegi militari venivano plasmati i quadri della Grande Armée, una “macchina” che mise a frutto la tradizione secolare della Francia, aggiornata alla luce della Rivoluzione trionfata nella battaglia di Valmy, ove, secondo Goethe, si levò l'aurora dell'Età Novella.

   Dopo il crollo definitivo di Napoleone i sovrani restaurati chiesero la restituzione delle opere d'arte indebitamente trafugate. Molte furono agevolmente individuate. Parecchie altre, però, erano finite nelle mani di “privati” o si erano “smarrite” e risultarono inarrivabili dopo un quindicennio di vicende turbinose. Gian Francesco Galeani Napione capitanò il recupero delle opere d'arte del Vecchio Piemonte su mandato di Vittorio Emanuele I di Savoia. Altre vennero restituite alla Liguria, dal 1814 assegnata alla corona sabauda. Grazie alla sua memoria ferrea Antonio Canova concorse al recupero di quelle destinate allo Stato pontificio e in specie a Roma, ove Pio VII tornò dopo la lunga detenzione in Francia e a Savona che, come il Piemonte, era stata incorporata nei confini dell'impero.

L'“invenzione” dei musei moderni e l'eredità politica

   Con grande equilibrio Giorgio Enrico Cavallo conclude che «al netto di tutte le ignobili profanazioni dei luoghi sacri, della distruzione gratuita di opere di pregio, della dispersione dei patrimoni, dei danni occorsi nel trasporto in Francia o nella loro restituzione, un punto merita di essere esaminato, e che probabilmente è l'eredità più sensibile dello sconcertante esperimento del Musée Napoléon: la nascita dei moderni musei. Quelle che erano state per secoli opere d'arte conservate nelle gallerie delle famiglie aristocratiche o nelle collezioni di duchi, principi e papi, erano state forse per la prima volta apprezzate da un vasto pubblico. Si trattò di un democratizzazione dell'arte che per noi contemporanei è scontata, quasi che l'opera in sé nasca per essere fruita da tutti». Anche se, come scrive l'architetto Marco Albera, collezionista e saggista, in un passo citato da Cavallo a conclusione del suo libro, «[il museo moderno] è rivoluzionario proprio per la sua caratteristica di mostrare l'arte separata dal suo contesto architettonico, devozionale, celebrativo delle glorie delle antiche famiglie, per diventare esclusiva esibizione di tecnica e ridursi, in definitiva, solo ad arte per l'arte, un'arte il cui fine diventa sempre meno intelligibile. L'ambizione di creare con il Louvre-Musée Napoléon il materiale catalogo di quanto di meglio l'umanità abbia prodotto si risolve nel tentativo di erigere un'ennesima, moderna Torre di Babele». Ma che cosa dire, allora, della celebre “Enciclopedia” di Diderot e d'Alembert e di tutte le sue imitazioni “nazionali” inclusa quella italiana?

   D'altro canto il londinese British Museum e i Musei d'oltre Atlantico (da New York a Los Angeles) consentono di cogliere il percorso planetario e millenario delle arti senza viaggi fuori portata per la maggior parte dei loro visitatori. Malgrado le deplorazioni che continuano a flagellarne la memoria non va infine dimenticato che a Napoleone non passò mai per il capo di infliggere la sorte dai Romani riservata ai loro nemici “mortali”: la distruzione totale e lo spargimento del sale sulle rovine. Anche durante e dopo lunghi sanguinosi conflitti quell'Europa dette mostra di umanità. Non per caso al Congresso di Vienna nel 1815 la Francia sedette alla pari con i vincitori e venne rappresentata dal principe Charles-Maurice Talleyrand-Périgord (1754-1838), antico vescovo di Autun, deputato per il clero agli Stati Generali del 1789 e molto sensibile al fascino femminile. Dal 1799 al 1807 era stato ministro degli Esteri di Napoleone, che lo creò principe di Benevento, ducato sottratto al papa. Nel 1830-1834 fu ambasciatore di Luigi Filippo d’Orleans a Londra.

  Anche la Storia, insomma, è “opera d'arte”.

Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Napoleone in tenuta di Primo Console. Sin dalla campagna d'Italia del 1796-1797 Bonaparte ebbe chiara l'importanza del patrimonio monumentale e artistico non solo sotto il profilo economico ma per il prestigio che derivava al suo possesso. Perciò non si fece scrupoli e ordinò l'invio di statue, quadri, gioielli dall'Italia alla Francia del Direttorio, sull'orlo della bancarotta. In tal modo consolidò la sua fama personale. Da giovane brillante generale ascese a uomo politico e impose al governo i suoi piani: dalla campagna in Egitto al colpo di Stato del 18 brumaio, dopo il suo rientro a Parigi.

   Ma l'eredità più importante lasciata da Napoleone al secolo seguente, a cominciare dagli italiani, fu soprattutto ideale e politica. Sotto le sue bandiere essi presero coscienza della propria identità e del proprio valore, anche militare. Documenti alla mano, ne ha scritto Alessandro Mella in “Viva l'Imperatore! Viva l'Italia! Le radici del Risorgimento: il sentimento italiano nel ventennio napoleonico”, intr. di Francesco Paolo Tronca, Roma, BastogiLibri.

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