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Cultura

Colloqui con Guglielmo Ferrero

Colloqui con Guglielmo Ferrero

di Aldo La Fata

Il Foglio di Piombino ha appena licenziato il decimo volume della prestigiosa collana diretta da Carlo Gambescia e Jerónimo Molina, “Biblioteca di scienze politiche e sociali”, dedicato stavolta a un sociologo, scrittore  e  giornalista, del calibro di  Guglielmo Ferrero (Portici, 21 luglio 1871 – Mont-Pèlerin, 3 agosto 1942).

Il volume è la ristampa parziale di un testo ormai introvabile, uscito nel 1939 a Lugano (Svizzera), curato del genero di Ferrero, il diplomatico e giornalista croato Bogdan Raditsa. Si tratta di un colloquio in forma di intervista a cui fanno seguito due discorsi dello studioso rispettivamente sulla Filosofia della storia e “Il Principe” di Niccolò Machiavelli. La nuova edizione aggiunge all’antica una densa introduzione di Gambescia e un piccolo apparato iconografico finale da cui apprendiamo che la tomba di Ferrero nel cimitero ginevrino di Plainpalais si trova a pochi metri da quella di  Calvino, il grande  riformatore protestante.

Della biografia di Ferrero, Gambescia traccia le principali tappe: dalla frequentazione e amicizia con Cesare Lombroso al matrimonio con la figlia Gina; dall’adesione alle idee di Auguste Comte ai viaggi e agli incontri con celebrità del calibro di Tolstoj e Theodore Roosevelt; dall’esilio in Svizzera all’assegnazione della cattedra di Storia contemporanea a Ginevra.

Di Ferrero, Gambescia parla come di un “liberale atipico” o, come ama dire, “triste”, nel senso di consapevole della spietata durezza della politica e avversario di ogni forma di potere ingiusto e tirannico. Scrive inoltre Gambescia che Ferrero è un sociologo “a largo raggio che procede per grandi affreschi storici” (p. 6) e che due anime battono nel suo petto, quella dell’ammiratore entusiasta del progresso e del mondo moderno e quella del suo più impietoso e inesorabile critico. Sua la distinzione tra civiltà “qualitative” e civiltà “quantitative” che egli spiegava così: “le antiche civiltà qualitative si erano proposte come scopo una certa perfezione morale od estetica, certe virtù o certe forme di bellezza. La moderna civiltà quantitativa si sforza invece di accrescere nella massima misura la sua ricchezza e la sua potenza, mettendo la forza della natura al servizio dell’uomo” (p. 53). Sennonché “la qualità non può perfezionarsi senza sacrificare la quantità e la quantità non può moltiplicarsi senza sacrificare la qualità” (p. 54), il che significa che ogni conquista, materiale o immateriale, ha sempre un costo, un prezzo da pagare che cresce in misura direttamente proporzionale al traguardo perseguito o all’obiettivo raggiunto.  Le civiltà qualitative del passato, osserva ancora Ferrero, non erano affatto indifferenti alla ricchezza, alla potenza, alla cupidigia e all’ambizione, così come le civiltà quantitative non sono mai state del tutto esenti da aspirazioni estetiche e morali. Quindi, nel suo schema, non si dà alcuna divisione netta o sincope tra i due modelli di civiltà, come invece troviamo nelle ingenue idealizzazioni di certi pensatori tradizionalisti. Il declino infatti non è una fase di decadenza o di regresso che appartiene solo alla civiltà moderna quantitativa, ma lo riscontriamo anche nelle civiltà qualitative più arcaiche. Questa dovrebbe risultare come una verità lapalissiana per chi guarda alla storia con occhi liberi e disincantati come faceva intelligentemente e onestamente Ferrero. Interessantissime le pagine che il nostro ha vergato su questo argomento e dalle quali emergono anche alcune caratteristiche peculiari dei due tipi di civiltà. Ad esempio, il fatto che le civiltà qualitative alla lunga tendano a cristallizzare i loro ideali e valori spirituali, finendo con l’irrigidirli e pietrificarli in vuoti formalismi, laddove le civiltà quantitative tendono invece ad assumerli in modo più elastico e mutevole correndo il rischio opposto di farli evaporare. Oscillazioni progressive e regressive sono una costante della storia umana e della storia delle civiltà. L’uomo poi ha una capacità tutta speciale, come registra con esattezza Ferrero, di abbrutire, avvilire, sminuire, degradare, banalizzare e immiserire quasi tutto quello che tocca, religioni, simboli e miti compresi. 

Suggestiva l’ipotesi di Gambescia che suggerisce che il volume “Fra i due mondi”, dove Ferrero sviluppa la dicotomia civiltà quantitativa/civiltà qualitativa, uscito nel 1913 e tradotto in francese nello stesso anno, avesse fornito a René Guénon una chiave storica e lessicale per sviluppare la sua profonda critica al mondo moderno. I due più importanti libri di Guénon su questa questione - La crisi del mondo moderno e Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - escono infatti diversi anni dopo, rispettivamente nel ’27 e nel ’45. Un’altra possibilità da me stesso suggerita e generosamente riportata da Gambescia nella sua introduzione, è che ad influenzare i due illustri studiosi fosse stato il libro di George Sorel Le illusioni del progresso del 1908 che fu uno dei primi, se non il primo in assoluto, a scagliarsi non solo contro i principali dogmi del cosiddetto “democratismo” come la “sovranità popolare”, la “volontà generale” e l’idea illusoria del “progresso”, ma anche contro il razionalismo, lo scientismo, le filosofie intellettualistiche e i loro misfatti. Tutte tematiche riprese, anche se diversamente affrontate, sia da Ferrero che da Guénon (qui segnalo in particolare il capitolo VI de La crisi del mondo moderno, intitolato “Il caos sociale. Critica del democratismo” che presenta con tutta evidenza notevoli affinità con il linguaggio e con i temi sollevati da Sorel).

A proposito di chi ha influenzato chi, Gambescia segnala pure lo studio di Dino Cofrancesco Tra conservazione e progresso. Guglielmo Ferrero dinanzi alla crisi di fine secolo e alla guerra mondiale (2002), che invece ipotizzava l’influenza di Ferrero, neppure tanto nascosta, sull’antimoderno Julius Evola. D’altronde, com’è noto, quest’ultimo aveva una certa famigliarità con gli studi sociologici dell’epoca e nei suoi libri non mancano citazioni di Weber, Pareto, Mosca e altri, mentre Guénon ha sempre accuratamente evitato di citare fonti non direttamente riconducibili alla letteratura tradizionale e sapienziale.  

Se dunque sembra verosimile ipotizzare qualche influenza di Ferrero su alcuni esponenti del pensiero anticonformista e tradizionalista del Novecento, è invece certa una comunanza di interessi di ricerca nonché una continuità e contiguità di pensiero con quello del quasi coetaneo Gaetano Mosca (1858-1941). Entrambi realisti e con una visione molto simile del potere, convergevano – fa notare Gambescia - anche nel riconoscimento dell’esistenza di specifiche regolarità e reiterazioni nei processi storici e nelle dinamiche politiche. “Costanti” e “linee di tendenza” che solo in apparenza richiamano alla mente i vichiani “corsi e ricorsi storici” o le teorie sulla ciclicità della storia che i due studiosi stettero ben attenti a non confondere mai direttamente e a non trasformare in inderogabili leggi universali o di natura.

Per parte nostra facciamo osservare che la negazione categorica o anche a titolo provvisorio, dell’azione di una provvidenza trascendente e della presenza di una finalità intenzionale in certi processi storici, fa inevitabilmente precipitare la storia e la sua stessa interpretazione in una casualità accidentale in cui viene fatalmente compromessa anche la dimensione etica. Probabilmente Gambescia avverte la centralità della questione, e forse, come per pudore intellettuale, preferisce arrestarsi sull’orlo del baratro etico. Ma il suo non è mai derisorio scetticismo.     

Certo è che Ferrero ha assolutamente ragione quando afferma che la chiave della storia universale non si trova in qualche “ripostiglio delle nostre biblioteche” e che non esistono chiavi in grado di districare i fatti “nella farraginosa macchina degli eventi” (p. 87), ma per cultura e formazione accademica non tiene conto dell’esistenza di altre possibilità e di altri strumenti di conoscenza che consentirebbero di prevedere quasi infallibilmente l’evolversi degli eventi. A titolo puramente esemplificativo e per far capire a cosa esattamente ci riferiamo, ricordo qui l’esistenza del “libro dei mutamenti” cinese, il celebre I Ching tanto apprezzato dai gesuiti del XVII secolo e nel XX, dallo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, in grado di dare risposte sul futuro a coloro che sapevano utilizzarlo correttamente: «Esamina dapprima le vicende, medita bene tutto ciò che esse implicano, le norme fisse allora si paleseranno. Se tu però non sarai l’uomo giusto, a te il significato non si svelerà». Ecco le “norme fisse” o “leggi universali” tanto ricercate e mai veramente trovate dai filosofi e che sempre sfuggirono e sfuggiranno agli eruditi di ieri di oggi e di domani. 

Altra fonte, questa volta occidentale, è l’ermetismo antico e medievale. Anche quest’ultimo può fornire a chi ne possegga le chiavi, straordinari strumenti predittivi, esattamente come il sacro libro cinese. In questo caso qualche scienza nuova come la fisica quantistica sembra averne tratto profitto quando ad esempio stabilisce l’esistenza di alcune “leggi universali” riscontrabili in natura come la “legge di Corrispondenza” (“Come in alto così in basso. Come in basso così in alto”); la “legge di Vibrazione” (“Tutto è in movimento, tutto è vibrazione”); la “legge di Polarità” (“Gli opposti si attirano e i simili si respingono”); la “legge del Ritmo o Armonia” (“Tutto si muove come un pendolo; la misura del suo movimento verso destra è la stessa del suo movimento verso sinistra; il Ritmo è la compensazione tra le due oscillazioni”); la “legge di Causa ed Effetto” (“Come uno semina, così raccoglierà”); ecc. ecc.

Un altro punto del pensiero di Ferrero esposto nel libro in esame e sul quale vale la pena soffermarsi, è il suo forte interesse per le vicende storiche dei grandi duci e condottieri di popoli e in particolare per le figure di Giulio Cesare e Napoleone Buonaparte. Personaggi fortemente e in parte giustamente ridimensionati dallo studioso che ne ha analizzato in opere specifiche - Bonaparte in Italia. 1796-1797 e Grandezza e decadenza di Roma - con implacabile realismo le rispettive vicende, facendoli scendere dai piedistalli mitologici sui quali erano stati issati sia dagli osannanti contemporanei che da una certa entusiastica ma acritica posterità. Ora, la mitologia del grande condottiero o il culto dell’eroe senza macchia e senza paura ha radici antichissime e se ne trovano le tracce in Oriente e in Occidente, diciamo quasi in tutte le culture e a tutte le latitudini. Un metafisico e uno spiritualista come F. Schuon (tra i primi e più originali allievi del succitato René Guénon) ad esempio, considerava tali personaggi degli “avatara minori”, quindi in certo modo, una specie di semidei o “epifanie divine”. Un’idea che si sposa sia con la dottrina ebraica del Messia regale che con quella del Madhi dell’islam shiita, entrambi “condottieri per conto di Dio”. Anche qui osserviamo, dal nostro punto di vista, che rinunciare a una caratterizzazione archetipica di certe figure storiche, come fa Ferrero con inesorabile e positivo realismo storico, se da una parte ci restituisce intatta l’indiscutibile e costitutiva difettività dell’essere umano, dall’altra mette in ombra assorbendole completamente, le loro speciali qualità personali e anche il significato mitico che esse possono rivestire e incarnare. E qui bisognerebbe distinguere bene la strumentalizzazione propagandistica o ideologica del mito fatta da chi in mala fede vuole servirsene per la propria causa politica, dalla sua funzione creativa in grado di nutrire spiritualmente l’umanità, di suscitare nobili sentimenti e stimolare azioni eroiche e virtuose. Il problema è che quando si abbattono gli idoli (operazione in sé altamente meritoria), si finisce, sia pur involontariamente, per abbattere anche i templi che li custodivano (operazione questa degna di biasimo). Il limite dell’approccio di Ferrero allo studio dei grandi duci della storia sta nel fatto di averli presi in considerazione solo come uomini, con i loro pregi e difetti, dimenticando l’importanza del mito che incarnarono. Perché alla fine ciò che conta è l’immagine che l’infallibile “macchina mitologica” (F. Jesi) di loro ci fornì. Quella ad esempio che trasformò proprio la vicenda storica di Giulio Cesare nell’epica di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, o quella che, ugualmente, trasformò il Bonaparte in una figura leggendaria dai tratti quasi messianici. Su questo ci pare che il grande Ferrero nel suo “presentismo” storiografico e sociologico sia caduto proprio sullo stesso terreno dove accusò che altri si fossero schiantati a causa, come scrisse, “di un arresto ideativo-emotivo fondato sul principio del minimo sforzo” (p. 18).

Quindi, demolire ab imis fundamentis i duci della storia, ridimensionare la figura di un altro grande come Machiavelli, considerare solo il realismo dei fatti e delle circostanze, individuare gli atavismi genetici, constatare l’innata follia umana, l’universale corruttela e le vergognose mollezze, togliendo a certi eventi della storia e a certi suoi protagonisti quell’aura di sacralità, di mistero e di fascino che li rese degni di stupita ammirazione, a noi non sembra cosa buona. Anche perché dietro ogni fatto ci sono spesso cause occulte indecifrabili, e dietro ogni uomo, intenzioni, aspirazioni, sogni e persino rivelazioni di natura misteriosa di cui occorre tener conto per non ridurre la storia a una mera successione di fatti senza importanza e gli uomini a raziocinanti ominidi senz’anima.

Le nostre naturalmente sono solo osservazione per sommi capi, che tra l’altro muovono da un punto di vista del tutto estraneo a Ferrero e che in questa sede non prendono in esame la vastità e complessità dei suoi lavori. Allo stesso tempo, siamo ben consapevoli che lo studioso, al quale è davvero difficile muovere delle critiche che egli nei suoi studi non abbia in qualche modo previsto e quindi neutralizzato, merita ben più di una semplice ed estemporanea recensione. Quando nei suoi colloqui con Bogdan Raditsa egli afferma che tutta la sua attività intellettuale “ha consistito nello studiare un certo numero di problemi della vita individuale e collettiva” (p. 67) e che “l’uomo è un prigioniero e la vita una specie di carcere, dalle cui finestre non si vede che un orizzonte ristretto” (p. 70), lo sentiamo più che mai idealmente e spiritualmente vicino.  Un’ affinità che crediamo  avverta  anche Gambescia.

Riconoscere l’enorme complessità delle cose e la propria inadeguatezza è un inconfondibile indizio di vera saggezza. E proprio in questo consiste, a nostro avviso, la grandezza di Ferrero rispetto ad altri suoi eminenti ma più presuntuosi colleghi dell’epoca; ovvero, il sapere che non si può dare una risposta a tutto e che ci si deve limitare, come scrive “a poche conclusioni semplici e chiare”. Un insegnamento capitale che soprattutto i giovani studiosi di oggi di tutte le discipline non dovrebbero mai dimenticare.

Bogdan Raditsa, Colloqui con Guglielmo Ferrero. Seguiti da Due Discorsi di Guglielmo Ferrero a cura di Carlo Gambescia, Edizioni il Foglio, Piombino 2022.

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