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Cultura

LA GUERRA SIMBOLICA È GUERRA VERA

LA GUERRA SIMBOLICA È GUERRA VERA

Shabbat Menkaura

LA GUERRA SIMBOLICA È GUERRA VERA

… e può uccidere per davvero.

Fin dall’inizio dei tempi il simbolo ha giocato un ruolo fondamentale nella storia culturale e spirituale dell’umanità.

Non è mia intenzione qui analizzare la storia dei simboli ovvero il loro contenuto intrinseco e neppure la loro fisiologia. È stato fatto mille volte, anche su queste pagine credo, e son sicuro di avere poco da aggiungere.

Inoltre, queste operazioni meramente culturali le rimandiamo a tempi migliori, tempi nei quali si auspica che la fine della nostra civiltà sia rimandata.

L’ottica che vorrei qui sottolineare è quella dell’utilizzo strumentale dei simboli, della loro estrema pericolosità e di come sia possibile difendersi dagli attacchi simbolici.

Il simbolo rispetto al logos, al discorso, possiede il potere di imprimersi direttamente nella nostra mente, bypassando la porzione logica e razionale che è deputata al vaglio della parola.

È questa la potenza del simbolo.

Anche le lingue ideogrammatiche, quali l’Antico Egizio, possiedono una capacità di trasmissione in bytes al cervello umano molto superiore a quelle meramente alfabetiche.

Possiamo dire che una lingua anche parzialmente ideogrammatica sia paragonabile alla fibra ottica, rispetto ad una linea analogica.

In giapponese, per fare un esempio, per convenire certe sfumature concettuali, si ricorre tuttora ai caratteri cinesi.  

La tradizionale riluttanza ebraica e musulmana nei confronti delle immagini che rappresentino, non solo il metafisico, ma lo stesso mondo naturale, nasce dalla consapevolezza che l’imago, l’immagine, possiede un potere di suggestione simbolica tale da determinare le menti e le coscienze.

In entrambe queste lingue, le lettere scritte vengono utilizzate come potenti strumenti simbolici come insegnano le tradizioni sia dei kabbalisti che dei sufi.

L’architettura egizia rappresenta un prototipo evidente di utilizzo simbolico come strumento di potere in una dimensione ove sacro e profano si fondono per proiettare un messaggio potentissimo nelle menti dei sudditi.

Per tale ragione, in ogni grande progetto di costruzione dell’Egitto faraonico, che legava in modo olistico ed indissolubile l’aspetto religioso a quello istituzionale e quindi anche a quello politico e sociale, il profilo simbolico era certamente tra i più rilevanti.

Si prenda ad esempio il Grande Tempio di Osiride ad Abydos.

Abydos, originariamente Ȝbḏw (Abdju - collina del tempio), già capoluogo dell’ottavo nomos faraonico, rappresenta una delle più antiche città dell'Alto Egitto e veniva considerata con Heliopolis una delle due città sante dell’antico Egitto.

Nel “tempio,” simbolo della collina primigenia emergente dal Nun, si credeva che fosse conservata la testa di Osiride, secondo una delle versioni del mito.

Sebbene in questo sacro luogo esistesse già un complesso templare molto esteso e conosciuto, iniziato addirittura sotto la I dinastia e continuamente rivisto sino alla XVI, Seti I, effettivo fondatore della XIX dinastia, fu costretto ad affermare, in primo luogo simbolicamente, il trapasso di potere a favore della sua famiglia dalle tradizionali linee di sangue terminate con la moglie del generale-faraone Horemheb, Mutnodjmet.

Questa Grande Sposa Reale era sorella della regina Nefertiti moglie del faraone eretico, e forse era anche figlia di Ay, il faraone precedente, anche lui non di sangue reale ma che probabilmente si era legittimato sposando a sua volta Ankhesenamun, la vedova di Thutankhamun e terzogenita di Akhenaton.

Fu proprio Horemheb a cancellare tutti i simboli del periodo amarniano, riportando l’ortodossia in Egitto, in quella stagione fatale della storia egizia che fa da palcoscenico alla grande epopea del Libro di Shemot ovvero dell’Esodo.

Horemheb, privo di prole, lasciò il potere a Ramses I uno dei suoi fidati generali, proveniente da una famiglia della aristocrazia guerriera del delta del Nilo, forse dalla stessa Avaris, l'antica capitale degli hyksos e centro del culto di Seth, da cui il nome del figlio e successore del primo ramesside Seti I.

La provenienza geografica della nuova famiglia reale è di fondamentale importanza per comprendere quanto la simbologia legata all’architettura fosse importante in Khemet.

Seti I, costruendo il nuovo Grande tempio di Osiride ad Abydos stabilì una connessione simbolica tra una dinastia priva di legittimazione di sangue con le due maggiori correnti spirituali della sua realtà: il mito originario della creazione heliopolitana e l’epopea osiriaca.

La nuova capitale Pi-Ramses, menzionata in Esodo 1-11, era situata a nord-est sia per contrastare il pericolo ittita, che per sottrarre la corte del faraone dalla costante pesante interferenza del clero di Amun-Ra.

Malgrado il trasferimento della capitale al Nord, già probabilmente progettato dal padre di Akhenaton il grande Amenophi III, realizzato in modo bizzarro dal faraone eretico in mezzo al deserto e vanificato dalla restaurazione seguita alla morte di quest’ultimo, restava cruciale che in luoghi strategici quali Abydos e soprattutto Tebe, la sede del potere del clero di Amun-Ra e vecchia capitale venissero eretti, con la forza della pietra scolpita, i simboli del potere dei Ramessidi, della loro legittimazione e della loro potenza.

Il successore di Seti I, il celebre Ramses II, già venne raffigurato adolescente nel tempio di Abydos accanto alla lista dei faraoni precedenti e dopo essere asceso al trono intraprese un grandioso progetto di costruzione di monumenti dedicati alla glorificazione della dinastia regnante, nel caso in cui qualcuno potesse dubitare della divinità del faraone in assenza di legami di sangue con i precedenti monarchi.

Anche la presenza nella sua grande titolatura del titolo di “amato da Amun” ma non quello di “potente in Tebe (Waset)” possono darci un indizio della volontà simbolicamente espressa di riportare al nord il fulcro del potere politico e se ciò, per varie ragioni fra cui quelle strategiche, non poteva essere fatto riproponendo l’antica capitale di Heliopolis (Iunu) simbolicamente molto più espressiva del potere del faraone-dio che di quello della casta sacerdotale, la costruzione di Pi Ramses fu accompagnata da una campagna di costruzioni simboliche che va dal tempio di Abu Simbel al confine sud dell’Egitto ramesside sino al Delta del Nilo, allo scopo di rammentare il potere del faraone su tutto il territorio della Khemet.

Il figlio di Ramses II, il faraone guerriero Merneptah, nella sua titolatura si definisce Ba-en-re Mery-netjeru, “Anima di Ra, Amato dagli dèi” così completando il distacco, anche simbolico, dal giogo costituito dal clero di Amun e, utilizzando proprio le mura del complesso templare di Karnak per celebrare le sue vittorie contro i “Popoli del Mare”, come già aveva fatto il padre con la mezza sconfitta di Qadesh, trasformata in un brillante successo. Qui sta la potenza del simbolo. La dinastia ramesside aveva maggiore interesse a fare riferimento più alla simbologia solare del dio Ra, tradizionalmente associata alla regalità, che a quella di Amun, ma non rinunziava a proclamare, proprio dal principale tempio di quest’ultima divinità, la propria centralità nell’esercizio del potere, anche mediante l’utilizzo della forza militare.

È evidente l’importanza simbolica di queste opere per il controllo della società e per l’insegnamento ai sudditi della storia del regno in una versione gradita al potere. Per il popolo, a Qadesh, Ramses ha sconfitto il grande nemico ittita. Punto.

Ho utilizzato questi antichi esempi, che ben si sposano al nostro Rito, per spiegare come i simboli detengano grande potere e che il potere, consapevole della forza simbolica, usi ed abusi dei medesimi simboli per raggiungere i propri scopi.

Storicamente il potere non ha mai esitato anche a strumentalizzare e a pervertire i simboli, persino quelli religiosi, pratica sacrilega che se conferisce al potere stesso maggiore legittimazione, in ultima analisi non può che generare in molti soggetti una vera e propria repulsione per tali simboli.

Ovviamente ciò è sbagliato.

Le azioni materiali compiute sotto l’egida di un simbolo raramente hanno una reale connessione con il simbolo stesso.

La leggenda di Costantino e della sua vittoria favorita dal simbolo sognato e iscritto sugli scudi delle truppe è, appunto, una leggenda. Con ogni probabilità Costantino morì pagano e il simbolo del potere temporale della chiesa, la famosa donazione di Costantino, fu un falso medievale, fatto anche esotericamente desumibile dalle cannonate di Porta Pia.

Quel giorno l’Eterno non ha certo inviato le Sue Schiere per difendere le mura di Roma.

Simboli falsi o corrotti portano solo alla sconfitta finale.

Arrivando ai giorni nostri la situazione appare difficile, se non drammatica.

In primo luogo, la comunicazione, così ubiqua ed oppressiva, ci sommerge con un eccesso di simboli.

Tale fenomeno non appare legato alla bontà o meno del simbolo stesso. Anche se questo continuo torrente di stimolazioni fosse composto unicamente da simboli positivi (e non è affatto così) la iperstimolazione sarebbe comunque nociva.

È la differenza dell’effetto che può fare un bicchiere di acqua fresca per le nostre anime assetate e quello di essere colpiti continuamente in faccia da un idrante violentissimo.

Si diventa scemi se non si sta attenti.

Per non parlare della qualità, oltre che della quantità, dei simboli che ci assaltano da ogni dove.

Il potere politico, quello economico, gli ingegneri sociali, tutti vogliono aggirare le difese costituite dal nostro raziocinio, dal nostro discernimento, del nostro dubbio e del nostro libero arbitrio, per colpirci direttamente alle spalle, vigliaccamente, nei nostri punti deboli.

Come già facevano i Ramessidi, anche i potenti ed i prepotenti di oggi vogliono essere associati a simboli positivi e luminosi.

Ma ricordiamoci che i simboli possiedono una caratteristica che li differenzia intrinsecamente dai marchi.

Questi ultimi segnano l’appartenenza a qualcuno o a qualcosa, mentre i simboli sono patrimonio comune ed indisponibile.

Quando un soggetto, specie se potente, tenta di trasformare un simbolo in brand, sta già compiendo un abominio e il tentativo di appropriazione del simbolo è già sufficiente a svelare le intenzioni nefande di chi ci provi.

Gesù, Maria, l’Eterno, gli Angeli, la Pace, la Bontà, la Decenza, la Purezza, la Carità, la Fede, la Verità, ma anche il rispetto e la tutela dell’ambiente, la pace sociale, il rispetto reciproco, con tutti i simboli connessi a tali concetti, non appartengono ad alcuno e sono nostri da afferrare e mettere nel cuore. Gratis.

Sventolare una bandiera è facile, ma quasi sempre sbagliato ed in alcuni casi, rovinoso.

Seguendo questo umile e quasi pedestre suggerimento, non è poi così difficile distinguere quali simboli siano benefici e quali potenzialmente dannosi.

La Bellezza è un valore simbolico importante ma deve essere correttamente impiegata. Bella è la natura, bello il corpo umano, a Sua immagine e somiglianza, bello è lo spirito quando è armonioso.

Ma un corpo umano, per quanto ben fatto, trasformato in merce, anche solo per vendere cosmetici, non è più un simbolo, ma un marchio, come il marchio della bestia, il vitello d’oro.

I marchi, cioè i simboli asserviti alla materia, sono pericolosissimi, in quanto fanno appello alle nostre debolezze istintuali, animali per convincerci che le acquisizioni materiali, al di là del legittimo diritto al sostentamento e ad una vita decorosa, che la Torah, il Libro, garantisce a chiunque, anche agli stranieri ed ai proseliti, abbiano un valore intrinseco, cioè ci qualifichino e ci distinguano, non solo agli occhi dell’Eterno, ma anche nei rapporti sociali.

Come è ovvio, ciò può avvenire solo in una società di apostati materialisti che si diversificano l’uno dall’altro praticamente solo per il possesso di ricchezze e beni fisicamente tangibili.

Altrettanto vero è che momenti simbolici della nostra vita come la nascita, la malattia (e la sofferenza) nonché la morte, che ci fanno capire in modo inequivocabile la natura effimera della vita materiale, siano ferocemente oscurati e sviliti da questa società, che mediante i suoi cantori ci invita ad abortire senza limiti, ad ignorare la sofferenza con l’ausilio di farmaci, droga e alcool e a farci lestamente uccidere mediante l’eutanasia quando diventiamo un peso per la società.

Esiste però un’ipotesi ancora peggiore dello svilimento materialistico del simbolo ed è la perversione del simbolo stesso, ovvero la proposizione di un simbolo negativo come positivo.

Come non ammirare, in senso ironico ovviamente, la scaltrezza ed il cinismo di chi ha gestito dietro le quinte la trasformazione dell’attrice simbolo degli adolescenti normali, che vivono in famiglia, dotati degli altrettanto normali valori della società occidentale vecchio stile e mi riferisco al personaggio Disney di Hannah Montana, nella scatenata e sfrontata Miley Cyrus, pronta ad ogni eccesso sessuale, alcolico e di consumo di droga?

Quando ancora non aveva 18 anni, i suoi “astuti” consiglieri la fecero fotografare mentre scendeva da un’automobile indossando un gonna cortissima e senza biancheria intima. Le foto, pudicamente (si fa per dire) ingentilite da una stellina, fecero il giro del mondo in un paio di ore.

Ancora prima della maggiore età un simbolo della purezza dell’adolescenza era stato trasformato repentinamente in un simbolo di una minorenne corrotta e pronta a tutto pur di conseguire il successo.

I danni psicologici e spirituali che questa operazione mediatica ha prodotto su milioni di giovani menti e di giovani anime sono incalcolabili.

Un simbolo del Bene, perché Hannah Montana era l’epitome della brava ragazzina americana, si era trasformato in poche ore in un simbolo di pura trasgressione sessuale, aggravato dallo status di minorenne della protagonista. Per alcuni, l’equivalente spirituale di un colpo da KO.

Ad un chiaro esempio di perversione del simbolo vogliamo ora affiancare quello della interversione del simbolo stesso.

Prendiamo la famosa serie di film sui vampiri buoni e luccicanti.

Un’eccezione? No, la regola per i prodotti occidentali degli ultimo 30 anni. Ciò che è buono si rivelerà maligno e perverso e ciò che “appare” cattivo, si rivelerà solo “emarginato” ed “incompreso” e, in ultima analisi, molto migliore di chi pretendeva di essere dalla parte del Bene.

Curiosamente questa lebbra mediatica non si è estesa ai prodotti asiatici, ove, al di là dei normali colpi di scena ove un personaggio asseritamente positivo viene poi rivelato nella sua essenza maligna, la distinzione tra bene e male, a livello simbolico, è ancora quella classica che caratterizzava anche i media occidentali sino agli anni ’80.

Chiunque pensi di spacciare questo diverso atteggiamento come il risultato di un approccio maggiormente maturo e complesso della cultura occidentale rispetto a quelle orientali, faccio notare che, a parte lo stupido sciovinismo di una tale proposizione, che tenderebbe a teorizzare che un drogatello di Hollywood sia per definizione più “evoluto” di un cinese o di un giapponese, la stragrande maggioranza dei prodotti americani degli ultimi anni sono chiaramente mirati ad un pubblico di cerebrolesi, altro che maggiore complessità o maturità.

A togliere ogni dubbio su questo punto cito solo un’opera tra le tante: L’arpa birmana film del 1956 diretto da Kon Ichikawa, basato su un romanzo per bambini omonimo di Michio Takeyama.

La lirica e ieratica poesia che, con lentezza tutta orientale, cresce nel corso del film fino a sommergere l’anima dello spettatore come la grande onda di Kanagawa di Hokusai, può da sola togliere ogni velleità di superiorità culturale e spirituale a chiunque abbia la bontà di guardare questa immensa opera d’arte.

Secondo la tradizione spirituale tradizionale e secondo il testo della Sacra Scrittura, l’interversione simbolica rappresenta il massimo risultato che si possa conseguire nella folle corsa verso l’apostasia.

Il massimo dell’interversione simbolica è quello che tende a negare l’esistenza della Verità dell’Uno per proclamare il dominio della Molteplicità relativistica.

Il simbolo ultimo della fede, anche per Gesù stesso (Marco 12, 29-31; Luca 10,25-37; Matteo 22:34-40) è lo Shemà Yisrael. Leggiamo Luca:

25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» 26 Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» 27 Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». 28 Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa' questo, e vivrai». 29 Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» 30 Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s'imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. 32 Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. 33 Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; 34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno dopo, presi due denari, li diede all'oste e gli disse: "Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno". 36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s'imbatté nei ladroni?» 37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va', e fa' anche tu la stessa cosa».

Nel proclamare lo Shemà noi ci apriamo al simbolo e lo trasmettiamo agli altri, in un’armonia infinita.

Con il relativismo operiamo in senso contrario.

Proclamiamo la Molteplicità e, quindi, l’impossibilità di coesistere armonicamente con gli altri. Ognuno possiede i suoi motivi e le sue pulsioni, per definizione inconoscibili agli altri e i rapporti, compresi quelli personali come il matrimonio, divengono solo temporanee alleanze di interesse in una fuggevole ricerca di vantaggi.

Il Bene coincide con ciò che ci conviene. La nostra esistenza ruota attorno alla centralità del nostro beneficio personale.

Questo relativismo estremo, questa mutevolezza di valori e di opinioni, ci rende delle foglie in balia del vento delle nostre passioni e delle manipolazioni dei furbi e dei maligni.

La nostra supposta libertà risiede nella capacità di assumere a nostro vantaggio una “verità” che verità non è, bensì opinione, proclamando quale “bene” ciò che poco prima avevamo dichiarato come “il male”.

Non dobbiamo fare errori però. Questo discorso non ha nulla a che fare con la capacità e la libertà di poter cambiare idea se si comprenda meglio e con maggiore profondità ciò che in precedenza non si era colto con pienezza.

L’evoluzione non è relativismo, ma crescita.

Nel caso di specie, quello relativistico, la differenza tra il bene e il male non esiste più e si cambia idea solo per convenienza, calcolo, interesse di parte.

Il simbolo ed il suo messaggio divengono strumento relativistico e ciò sembra portarci un vantaggio immediato, ma il simbolo corrotto o originariamente già malvagio, non si limita a farsi usare per i nostri scopi, ma a sua volta ci utilizza e ci trasforma secondo la sua stessa matrice simbolica.

Eppure, Isaia 5, 20-25, non lascia spazio al dubbio: è chiarissimo. «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro. Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti. Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti, a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente. Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere, perché hanno rigettato la legge del Signore delle Schiere, hanno disprezzato la parola del Santo di Israele.»

I simboli sono matrici energetiche potenti e ci possono condurre a vette altissime, ovvero a comportamenti distruttivi verso noi stessi e verso gli altri.

La scelta dei giusti simboli e il contemporaneo consapevole rifiuto di simboli dannosi costituiscono una delle sfide più importanti per l’essere umano e per il suo discernimento.

In ogni ambito, dalla politica al sacro, la complessità del mondo moderno va pazientemente dipanata attraverso il filtro della corretta azione suggerita da collaudati simboli tradizionali, di cui nessun soggetto, lo ripeto nessun soggetto, possiede l’utilizzo esclusivo perché la Divina Presenza espressa attraverso i simboli appartiene di diritto a tutte le Sue creature..

 

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