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Cronaca

VATILEAKS, IL COLPEVOLE E’ SEMPRE E  SOLO IL MAGGIORDOMO?

VATILEAKS, IL COLPEVOLE E’ SEMPRE E SOLO IL MAGGIORDOMO?

di Vito Sibilio

Note sul vatileaks ai tempi di Benedetto XVI.

Abbiamo quasi dimenticato il vatileaks che funestò gli ultimi anni di Benedetto XVI e di solito preferiamo baloccarci con ipotesi azzardate se non ridicole sulla validità della sua abdicazione. Invece in quegli eventi si nascose una forte opposizione dottrinale e politica all’azione di governo di Papa Ratzinger. Si preferisce considerarli l’operato del solo Paolo Gabriele, maggiordomo del Papa, perché, si sa, il colpevole è sempre (e quindi solo) il maggiordomo. Ma stavolta non è cosi e i fatti, messi in fila, lo dimostrano.

All’inizio del 2009 l’abbè Claude Barthe pubblicò sull’Homme Noveau un dossier sui principali oppositori di Benedetto XVI e del suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, in Vaticano, contenente i nomi di Carlo Maria Viganò, capo del personale della Segreteria di Stato, di Fernando Filoni, sostituto agli affari generali, di Gabriele Caccia, assessore, di Paolo Sardi, coordinatore degli scriptores del Papa, di Carlo Maria Polvani, direttore dell’Ufficio Informazioni e Documentazione della Segreteria di Stato e nipote di Viganò, nonché dei cardinali Achille Silvestrini, William Joseph Levada, Ivan Dias, Giovanni Battista Re e dell’arcivescovo Gianfranco Ravasi. Tutti liberal, uno legato al Gruppo di San Gallo, ossia Silvestrini, moltissimi appartenenti alla diplomazia, emarginata da Ratzinger nella gestione del governo centrale della Chiesa, con una scelta profondamente sbagliata e, come si è visto, pericolosa per lui.

Benedetto XVI non diede peso alla lista e probabilmente fece bene, perché esse di solito sono un misto di verità, di menzogne e di strumentalizzazioni. Filoni, Sardi e Ravasi divennero cardinali. Ma forse qualcuno di questi nomi era, già da allora, attivo nel contrastare l’azione di governo del Papa. Quel che segue sembrerebbe dimostrarlo.

Il 16 luglio 2009 l’arcivescovo Carlo Maria Viganò divenne segretario generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, col mandato di far funzionare al meglio l’amministrazione pubblica e con la promessa che, dopo due anni di parcheggio, gli sarebbe stato dato il cappello cardinalizio e la Presidenza del Governatorato stesso. Dietro la nomina ci furono il Cardinale Presidente del Governatorato, Giovanni Lajolo, il Cardinale Segretario di Stato, Tarcisio Bertone e, ovviamente, il Papa stesso, Benedetto XVI, accomunati dalla volontà di rendere trasparente la vita del piccolo Stato. Il neo-eletto si mise alacremente al lavoro e, a suo dire – e non c’è motivo di non credergli – individuò sprechi e modalità operative poco chiare.

La reazione a questa sua attività non si fece attendere: nel 2010 numerose mail anonime furono inviate a diversi Cardinali e Nunzi Apostolici, per informarli che il Segretario Generale praticava il nepotismo, avendo chiamato a collaborare con sé il nipote, monsignor Carlo Maria Polvani, fino ad allora responsabile dell’Ufficio Informazioni e Documentazione della Segreteria di Stato. Ma l’accusa era di per sé troppo fragile per fare rumore. Carlo Maria Viganò avrebbe poi avanzato l’ipotesi che gli estensori delle missive fossero il delegato amministrativo dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini, e Marco Simeon, personalità laica molto vicina al Segretario di Stato e molto controversa. Il primo era stato un bersaglio dell’azione riformatrice di Viganò e il secondo era al centro di numerosi pettegolezzi all’ombra di Bertone. Ad oggi nessuno può sapere chi abbia scritto quelle mail, del cui autore si può arguire solo che aveva a disposizione un indirizzario completo e che voleva screditare il Segretario nel Sacro Collegio e all’estero. Si può anche dedurre che egli voleva attirare l’attenzione dei massimi vertici della Chiesa su quella che era una disputa interna all’amministrazione del Vaticano, dando l’immagine plastica di un vuoto di potere nel quale allignava corruzione. Le felpate reazioni dei destinatari ammortizzarono il già flebile impatto di quelle lettere.

Il 5 febbraio del 2011 vi fu un cambio di passo: sul Giornale, di proprietà di Paolo Berlusconi, comparve un duro articolo contro la gestione di Viganò.

Il 12 marzo ne venne pubblicato un secondo, dello stesso tenore. La direzione del quotidiano si era schierata con un gruppo anonimo, ma evidentemente potente, che voleva l’allontanamento di Viganò, e che era evidentemente annidato entro le Mura Leonine. Un gruppo abbastanza potente da avere la benevolenza del fratello del Presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi. Nessuno avrebbe chiamato a Palazzo Chigi per deplorare l’interferenza nelle cose vaticane. In conseguenza di questi articoli non firmati, Andrea Tornielli, vaticanista del Giornale e non uso a fare killeraggio politico-ecclesiastico, si dimise dalla redazione, sempre nel mese di marzo. Sembrava che all’ombra del Cupolone si combattesse una lotta sorda per il Governatorato, nella quale ancora non era coinvolto nessuno che potesse vibrare un colpo fatale prendendo una decisione pro o contro la linea che si sta seguendo, ossia quella del segretario generale, Viganò. Lo si voleva isolare, perché palesemente non si poteva allontanarlo. Segno che l’onnipotente Segretario di Stato ancora non aveva preso posizione.

Il 27 marzo Viganò scrisse a Benedetto XVI lamentando la situazione in cui si trovava. Una seconda lettera venne scritta dal Segretario al Pontefice il 4 aprile del 2011. L’8 maggio 2011 Viganò scrisse stavolta al Segretario di Stato. Queste missive rimasero segrete e non sortirono alcun effetto. Come vedremo, altri elementi in mano a Bertone e al Papa determinarono le loro decisioni, molto diverse da quelle auspicate da Viganò.

Il 26 agosto 2011 la lotta sembrava essere giunta al suo epilogo, perché Viganò venne rimosso dal suo incarico. Perché tale rimozione non sembrasse sconfessione, egli fu nominato Nunzio Apostolico negli USA, il 19 ottobre. Una persona chiacchierata, in pessimi rapporti con la Terza Loggia, con motivi di livore verso il Papa stesso, un ecclesiastico che non voleva lasciare l’incarico, venne destinata alla massima carica diplomatica della Santa Sede, con un gesto apparentemente incomprensibile, a meno che non si volesse, con esso, ammansire una intera fazione che si presumeva fosse dietro a Viganò e che, sbagliando, si pensava volesse solo posizioni di potere. La cosa forse fu fatta credere a Bertone e al Papa, ma con l’inganno.

Il 18 gennaio 2012 Viganò incontrò per la prima volta Barack Obama, un Presidente che in tutto era contrario alla linea di Benedetto XVI in materia ecclesiastica, come dimostrò il fatto che egli, con Papa Francesco, quando in certe cose la capovolse, si profuse in mille elogi e mille sostegni. Tra il Nunzio e il Presidente iniziò una relazione cordiale. L’ostilità di alcuni diplomatici vaticani verso il Papa e quella dell’Amministrazione Obama verso la Santa Sede si saldano per un change, se non di regime, almeno di government. I primi puntavano a Bertone, la seconda allo stesso Papa, anche se non sappiamo con quanta contezza della possibilità di farlo abdicare.

Il 25 gennaio 2012 le lettere del Nunzio al Papa furono lette, inopinatamente, da Gianluigi Nuzzi ne Gli Intoccabili, su La7, all’epoca di proprietà del gruppo TIM. Il vero intoccabile era il Nunzio, le cui missive potevano transitare su una emittente privata appartenente al parastato senza che l’Augusto destinatario ispirasse riverenza o timore. Lo stesso Nuzzi, ben addentro alle lotte di potere nelle Sacre Stanze – aveva scritto Vaticano SPA, col quale, di fatto, aveva aiutato Bertone nella lotta contro Sodano per il controllo delle finanze pontificie – parlò di quelle missive su Libero, appartenente al Gruppo Angelucci, il cui titolare era all’epoca deputato del PDL.

Il 26 gennaio la Sala Stampa vaticana minacciò di ritorsioni legali le due testate, per la divulgazione fraudolenta dei documenti riservati. La cosa non ebbe nessuna ricaduta mediatica e anzi divenne un argomento contro la Santa Sede, che avrebbe ostacolato la libertà di informazione. Il 27 gennaio la lettera di Bertone a Viganò viene pubblicata sul Fatto Quotidiano, di proprietà della SEIF, società priva di un azionista di controllo, la cui vicinanza alla causa del Nunzio si deve quindi attribuire, oltre che alla voglia di scoop, all’assonanza di vedute ostili a Bertone e, sullo sfondo, a Ratzinger.

Il 28 gennaio il Giornale pubblicò un articolo contro Viganò in difesa di Bertone. La lotta si era spostata: non era più attorno a Viganò, oramai negli USA, ma a Bertone, reo di non averlo sostenuto. Indirettamente, si dava del Papa una immagine sbiadita, di un uomo debole, incapace di praticare in casa propria la trasparenza che va predicando. Bisognava bilanciare questa situazione.

Il 4 febbraio il Governatorato rivelò perciò che era esistita una Commissione segreta che aveva indagato sui funzionari accusati da Viganò ma che non aveva trovato alcunché. La pubblicazione tardiva di questi esiti e la modalità con cui erano stati raggiunti erano però l’ideale per accrescere e non per sedare la polemica. Il 14 dello stesso mese l’Osservatore Romano pubblicò allora un articolo in difesa del Pontefice. Ciò che accadde dopo gettò nel cono d’ombra anche questo autorevole intervento.

Il 22 febbraio il Corvo del Vaticano, che poi si rivelerà essere Paolo Gabriele, il maggiordomo di Ratzinger, si fece infatti intervistare a volto coperto da Gianluigi Nuzzi su La7. Egli affermava che erano in tanti, almeno venti, nella Segreteria di Stato, all’APSA e altrove in Vaticano, a trafugare carte per moralizzare la Chiesa. Ognuno di essi non conosceva gli altri. Il Corvo parlava come un laico. Evocò lo spettro di Emanuela Orlandi. Citò discorsivamente Agostino Casaroli. La cosa destò una enorme eco, ma passò in sordina che questo congiurato, che faceva apparente professione di disinteresse, avesse agganci tanto potenti da permettergli di andare in TV senza che nessuno ne svelasse l’identità al Pontefice stesso. Passò anche in sordina il ruolo, plasticamente evidente, di Nuzzi come terminale variabile delle lotte intestine del Vaticano e quello della sua emittente come proscenio per ingerirsi in esse.

L’8 marzo il cardinale Lajolo concesse un’intervista a “Stanze Vaticane” per chiarire la situazione, senza ottenere alcun particolare effetto mediatico. La rimozione di Viganò, avvenuta palesemente per incompatibilità ambientale, diventò un pretesto per accusare la Santa Sede di corruzione strutturale.

Il 17 marzo scese in campo monsignor Angelo Giovanni Becciu, Sostituto della Segreteria di Stato per gli Affari Generali. Egli rivelò in una intervista all’Osservatore Romano che su tutto questo affare erano state tenute tre inchieste in Vaticano: una penale, una amministrativa ed una papale. Tutte e tre conclusesi con un nulla di fatto. A dimostrazione che il Papa aveva preso sul serio tutto l’accaduto. Ma nel mainstream Viganò rimase un eroe e Bertone un corrotto, col Papa sullo sfondo come un inetto. L’immagine rimase questa, nonostante il 24 aprile Benedetto XVI nominasse una Commissione Cardinalizia per una indagine su tutti i casi di fughe di notizie dal Vaticano, composta da nomi di peso: Julio Herranz Casado, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, che da quel momento coordinò tutte le indagini raccogliendo una enorme quantità di materiale.

Il 1 maggio 2012 l’AISI e la Gendarmeria Vaticana si consultarono e il servizio segreto italiano ammonì la controparte sul fatto che la fuga dei documenti avveniva da dentro la Santa Sede. Non sembra abbia messo in evidenza la rete di appoggi che i corvi avevano fuori, nelle comunicazioni di massa e nella finanza che le controllava.

La cosa non sfuggì invece a Gabriele Toccafondi e a Renato Farina, deputati del PDL, che il 17 maggio presentarono una interrogazione parlamentare per conoscere cosa sapesse il Governo di queste patenti violazioni della sovranità del Vaticano e delle conseguenti strumentalizzazioni. La risposta non fu affatto soddisfacente e fa capire da che parte stava, realmente, il Governo Monti, ossia contro Benedetto XVI. Ma fa anche capire che non si trattava più, ammesso che lo fosse mai stato, di una semplice faida tra gruppi vaticani. Una delle parti in lotta era abbastanza potente da minacciare un Papa regnante e da avere l’appoggio, dato tramite inazione, del Governo italiano, retto, guarda caso, da un uomo chiave del mondo finanziario gravitante attorno a Washington.

Il 19 maggio, infatti, nonostante ciò, uscì per Chiarelettere il libro di Nuzzi Sua Santità, costruito sui materiali trafugati da Paolo Gabriele. Il nesso tra i due appariva ben solido, non occasionale, e lasciava intravedere sullo sfondo altri personaggi in grado di coordinarli. Degno di nota che Chiarelettere era, dal 2009, tra gli azionisti del Fatto Quotidiano, dove Nuzzi aveva già scritto sull’argomento. La proprietà di Chiarelettere era, poi, al 49%, di GeMS SPA, tra le più referenziate holding editoriali italiane. Il lancio del libro, che tutto sommato non conteneva nulla di particolarmente scandaloso, avvenne anche sul magazine del Corriere della Sera. La Santa Sede reagì con un duro comunicato stampa.

Il 23 maggio la Gendarmeria Vaticana scoprì chi era il Corvo, ossia il maggiordomo Paolo Gabriele, in carica dal 2006, e lo arrestò. In suo possesso furono trovate ottantadue casse di documenti, molto delicati e molto tecnici, di cui almeno un migliaio furono considerati interessanti. Molti testi erano cifrati, segno che chi li aveva presi poteva decriptarli. Il 25 maggio la notizia dell’arresto di Gabriele fu resa nota e fu anche arrestato Claudio Sciarpelletti, analista informatico in Segreteria di Stato. A fine mese, un ex hacker collaboratore della Terza Loggia, diventato consulente esterno quale ingegnere informatico per la protezione dei computer centrali del Vaticano che pure in precedenza aveva violato, alla vigilia del suo arresto, lasciò precipitosamente l’Italia. La notizia, sebbene smentita dalla Santa Sede e sebbene propalata da Repubblica il 14 giugno successivo, è ad avviso di molti autentica, a fronte di molte altre false pubblicate sul tema da quella testata. Dopo qualche settimana di detenzione in isolamento, la condizione detentiva di Gabriele si addolcì e alla fine ebbe persino, stranamente, i domiciliari, sebbene potesse inquinare le prove.

Il 30 maggio il Papa fece un discorso in difesa della Curia Romana ma senza passare sotto silenzio la crisi che stava attraversando. Il 31 maggio la voce dell’abdicazione del Papa venne seccamente smentita. Apparve evidente che il vero bersaglio era proprio lui, Ratzinger, il grande moralizzatore che ora la stampa mondiale avversava, rendendogli impossibile di proseguire nel cammino di riforma dei costumi ecclesiastici. Segno che agli alti piani dell’editoria mondialista, zeppa di finanzieri, banchieri e industriali, della pulizia della Chiesa non interessava, mentre stava loro a cuore di controllarla indebolendola.

Nel luglio 2012 la Commissione Cardinalizia consegnò il suo rapporto a Benedetto XVI, che non lo rese mai pubblico, con una decisione confermata dal successore, Francesco.

Nello stesso mese, il 21, il portavoce ufficiale della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, tenne una conferenza stampa sul Caso Gabriele, accompagnandosi coi legali dell’imputato, il quale evidentemente era ben protetto, dentro e fuori il Vaticano, trattandosi del primo accusato di alto tradimento che, in uno Stato sovrano, fosse appaiato ad esso nelle relazioni pubbliche sul suo stesso caso.

In soccorso di Gabriele si presentò poi Repubblica, la cui proprietà non ha bisogno di essere presentata come le sue posizioni antipapali. La testata di Scalfari, poi confidente e travisatore seriale di Papa Bergoglio, parlò di altri tre corvi, ossia il cardinale Sardi (che avrebbe segnalato Gabriele come maggiordomo del Papa), la signora Ingrid Stampa, collaboratrice del Pontefice, e l’arcivescovo Jozef Clemens, già suo segretario. La ricostruzione, che puntava addirittura al personale dell’Appartamento Papale e che riprendeva una tesi del giornale tedesco Die Welt (appartenente al Gruppo Alex Springer e storicamente legato ai conservatori filobritannici), venne seccamente smentita dal Vaticano. Repubblica si distinse per l’accanimento nella divulgazione di notizie fasulle sul vatileaks che dimostravano come essa avesse un interesse reale, e non solo giornalistico, nella vicenda, volto a fomentarla.

Il 13 agosto fu letta la sentenza di rinvio a giudizio del maggiordomo. Il 30 agosto uno dei difensori dell’imputato, Carlo Fusco, rinunziò all’incarico, condizionando di fatto l’esito del procedimento, per dissensi col suo cliente in materia difensiva.

Il 29 settembre iniziò il Processo Gabriele. Già dal 6 ottobre il Sole24 annunziava l’intento papale di graziare la spia al soldo di nemici invisibili, perché su di essa gravava il peso dei nomi dei veri traditori che lo avevano manovrato. Interrogato sui nomi degli altri corvi, l’imputato non ne fece, limitandosi a dire di aver passato le carte in suo possesso al suo padre spirituale, Giovanni B., laddove la B non si è mai saputo per quale cognome stesse. L’unica cosa plausibile è che il confessore fosse un importante ecclesiastico della Curia.

L’11 ottobre, stralciata dal Processo la posizione di Sciarpelletti, venne emessa la sentenza di diciotto mesi di reclusione per Gabriele, abbastanza mite perché poteva arrivare a sei anni. Il 10 novembre Sciarpelletti, al termine del suo processo, mediaticamente più riparato, ebbe due mesi di carcere ma la pena fu sospesa. Di lì a poco, arrivò la grazia papale per Gabriele, il 22 dicembre. Le mancate detenzioni hanno risparmiato tre fastidi: ai condannati di parlare, ai mandanti di zittirli e al Vaticano di trovarsi cadaveri tra i piedi. Il maggiordomo infedele, defunto da qualche anno per un cancro, ebbe anche un posto nell’amministrazione dell’Ospedale del Bambin Gesù, appartenente al Vaticano, forse perchè non avesse bisogno di stampare memoriali per sbarcare il lunario. Anche a Sciarpelletti il Vaticano sospese il servizio ma non lo stipendio, apparentemente per la medesima ragione.

Possiamo fare alcune riflessioni. La prima è sul fatto che le lettere di Viganò fossero passate a La7, scelta perché emittente di nicchia, capace di fare informazione selezionata. La seconda è che l’unica persona in possesso delle lettere di Viganò che poteva passarle alla stampa era Viganò stesso, che aveva, evidentemente sin dagli USA dove si trovava quando scoppiò lo scandalo che lo riguardava, alleati potenti. Le lettere avevano tanto di protocollo vaticano, a prova che le copie partirono dalla Terza Loggia, ma furono messe a disposizione del Nunzio, il quale diede presumibilmente ordine di consegnarle alle redazioni prescelte. La terza è sulla lentezza della reazione della Segreteria di Stato, che forse temeva di dover affrontare altri scandali, magari montati ad arte, come quello che all’epoca fu denominato della P4. Forse Bertone temeva che si ricostruisse il giro che aveva fatto il presunto Archivio Dardozzi per arrivare nelle mani di Gianluigi Nuzzi e permettergli di scrivere Vaticano SPA, il libro che di fatto lo aveva aiutato ad assumere il controllo delle finanze vaticane. Se veramente quei documenti, attribuiti allo scomparso monsignor Renato Dardozzi, consulente del cardinal Agostino Casaroli, erano usciti dal Vaticano nel modo fortunoso descritto da Nuzzi nel suo libro per volontà di amici di Bertone, allo scopo di fare fuori l’organigramma dello IOR legato al cardinale Angelo Sodano,  il Segretario di Stato avrebbe fatto una pessima figura. Questo lo avrebbe messo in imbarazzante contiguità con il giornalista che ora scriveva contro di lui e contro il Papa. Qualunque sia la verità, a qualcuno premeva che il governo centrale della Chiesa fosse occupato prevalentemente se non esclusivamente dal vatileaks.

La quarta riflessione è su Gabriele, che ammise di aver iniziato a fare la spia dalla morte di Giovanni Paolo II. Per chi poteva lavorare all’epoca, visto che a Washington c’era George W. Bush, che con Ratzinger aveva ottimi rapporti? Gli unici referenti potevano essere in Vaticano, presumibilmente tra i “mafiosi” di San Gallo o tra i diplomatici in attesa di vedere le mosse del nuovo Papa, che poi, incautamente, li emarginò. Diplomatici e mafiosi che spesso erano le medesime persone. Si potrebbe persino ipotizzare che sia stato Gabriele a passare i documenti del presunto Archivio Dardozzi – ad usare quell’aggettivo è Benny Lai in Finanze Vaticane- fuori del Vaticano. A quell’epoca, Gabriele era già maggiordomo del Papa e, per il suo doppio giuoco che non poteva essere ignorato da tutti, in buoni rapporti con qualcuno in Segreteria di Stato.  La figura del maggiordomo rimane certamente molto enigmatica. Come poteva tenere in casa, come asserì di aver fatto, tanti documenti senza che i familiari se ne accorgessero? Come giustificava le assenze, lui cittadino vaticano, quando si recava, lasciando il servizio, fuori le mura leonine, per andare in TV o farsi intervistare da Nuzzi? E’ evidente che altri lo coprivano o che, agli appuntamenti segreti, andavano terzi al suo posto. Com’è credibile che il maggiordomo potesse fotocopiare del materiale nell’Appartamento del Papa senza che il personale e il prefetto Ganswein non se ne accorgessero? E’ evidente che quel materiale gli arrivava da altre parti, probabilmente già selezionato, visto che Gabriele non conosceva il tedesco in cui Ratzinger scriveva (a meno che non lo avesse imparato segretamente). Inoltre in casa di Gabriele furono trovati oggetti di valore e un assegno non trasferibile appartenenti al Papa, del quale ultimo il furto non si arriva a capire perché inutilizzabile. Tutta la storia del suo procedimento sembra una recita, dal finale già scritto, per non arrivare a livelli di colpevolezza sconcertanti, dentro e fuori il Vaticano. Di questo gli imputati furono consapevoli e a ciò venne conferma dal fatto che i nomi dei testimoni processuali furono secretati. La mitezza di Benedetto XVI diede la copertura morale a quella che fu una scelta politica, la stessa che sovrintese al trattamento di Sciarpelletti, i cui rapporti con Gabriele furono provati, e a quello dell’ingegnere informatico, a cui fu concesso quello che agli altri due fu negato, ossia di scappare prima di essere arrestato e addirittura di rimanere anonimo al grande pubblico. Perché è altrettanto evidente che Gabriele e Sciarpelletti, ad un certo punto, furono sacrificati per lasciare nudi Bertone e Ratzinger.

Se queste valutazioni sono esatte, allora però il defunto Paolo Gabriele non fu un semplice traditore, né uno squilibrato emotivo – come suggerì il perito del Tribunale pontificio  – né un ingenuo idealista – come disse, altrettanto ingenuamente, Gianluigi Nuzzi – ma un agente addestrato a fronteggiare tutte le emergenze, consapevole di recitare un ruolo all’interno di un copione molto più vasto. Ossia una autentica spia. Una persona della quale gli inquirenti hanno documentato la versatile cultura, dall’esoterismo massonico al mondo dello spionaggio. Una persona reparata e intelligente, predisposta al lavoro delicato e ambiguo che aveva compiuto.

L’ultima valutazione riguarda Viganò. Il suo itinerario “professionale” mi sembra abbastanza chiaro. Oppositore sin dall’inizio di Bertone, simulò al Governatorato uno zelo moralizzatore che apparve eccessivo e infondato, ma non insincero. In effetti gli sprechi al Governatorato erano notevoli da molto tempo, per cui Viganò sembrò peccare di mancanza di tatto, non di doppiezza. Per questo i suoi protettori in Segreteria di Stato riuscirono a farlo mandare Nunzio in USA, dove poté completare i suoi piani, entrando in combutta con i servizi, ammesso che già non lavorasse per loro. Credo che le mail che lo misero in cattiva luce presso i Cardinali e i Nunzi fossero parte di una recita con cui si preparava il suo ruolo di vittima, mediante accuse di scarso peso, come credo che le lettere che indirizzò a Bertone e al Papa Viganò le concepisse solo per affrettare il suo allontanamento, creandosi l’alibi del moralizzatore invasato ma onesto. Credo che anche la sua resistenza al trasferimento a Washington sia stata tutto sommato fasulla, perché inutile. Giunto negli USA, con quella copertura, Viganò smistò e diffuse le sue missive, mediante terminali che furono gli stessi di cui si servì Gabriele, a dimostrazione sia che lui e Viganò appartenevano alla stessa filiera, sia che le due fughe di notizie erano propedeutiche l’una all’altra. Quella di Viganò doveva denunciare il presunto marciume del Vaticano di ogni giorno e delegittimare il Segretario di Stato, quella di Gabriele far apparire Ratzinger un vecchio disorientato e inadatto al suo ruolo. Il fatto che, una volta asceso al Soglio Papa Francesco, Viganò abbia continuato ad attaccarlo questa volta dal fronte conservatore, dimostra plasticamente che egli, dagli USA, è solo al servizio di un piano di destabilizzazione sistemica del Vaticano, con protezioni tali che gli hanno permesso di diventare una star del web, vestale fasulla dell’integrismo, lui che per formazione di sicuro è un liberal come i suoi mentori gesuiti e della Pontificia Accademia Ecclesiastica.

Va da sé che, a fronte di questo enigmatico giallo vaticano, sarebbe interessante che qualcuno si prendesse la briga di vedere fino a che punto l’azione moralizzatrice di Ratzinger era giunta alla vigilia del vatileaks. Questo farebbe capire quali altre inconfessabili ragioni, oltre a quelle già discutibili di politica ecclesiastica, ebbero coloro che lo organizzarono. E dimostrerebbe che una convergenza, non sappiamo quanto parallela, tra diplomatici ambiziosi, potenze straniere invadenti ed ecclesiastici corrotti, sia stata la causa della fine traumatica, se non del Papato, almeno del programma di governo di un uomo che, anche a giudizio di un vaticanista accesamente anticlericale come Eric Frattini, la Chiesa Cattolica forse non meritava di avere a capo.

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