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Internazionali

GAZA, IL TRISTE EPILOGO

GAZA, IL TRISTE EPILOGO

di Cosimo Risi

Gli ostaggi in mano a Hamas si restituiscono cadaveri, una prigioniera in vita è costretta ad annunciarne la scomparsa. E’ il vortice dell’ansia. Di chi scappa dai bombardamenti in cerca di un impossibile rifugio, la via di fuga è Rafah, l’Egitto la tiene chiusa ad evitare il contagio. Di chi manifesta sull’autostrada di Tel Aviv per reclamare il ritorno degli ostaggi, possibilmente vivi. Di chi, nel nord d’Israele, abbandona il villaggio  sotto il tiro degli Hezbollah dal Libano. Di chi invia le medicine a Gaza con la bandiera del Qatar per gli ostaggi e per i prigionieri di fatto, la popolazione.

               In un lembo di terra si combatte una guerra efferata che non distingue fra militari e civili, fra autorità e gente comune. E’ significativo il caso di Gadi Eisenkot.

               Eisenkot è Ministro nel Governo di emergenza d’Israele, il Gabinetto di guerra che affianca il Primo Ministro. Al pari di Benny Gantz, di cui è il vice nel comune partito di centro, Eisenkot è stato Capo di Stato Maggiore della Difesa. Un alto grado militare e Ministro in carica perde un figlio ed un nipote nella battaglia di Gaza. Altri, nella sua posizione, avrebbero risparmiato i congiunti dal fronte.

               Eisenkot si presenta alle telecamere, la barba lunga del lutto, per criticare la condotta della guerra da parte del suo Primo Ministro. Occorre che Netanyahu lasci, ora e non a conflitto terminato. Che si tengano nuove elezioni, ora e non a conflitto ultimato. Che si tratti con la controparte per il rilascio degli ostaggi, anche una tregua prolungata se occorre. Che si ascolti l’amico americano, il solo di cui davvero fidarsi, quando invoca la prudenza nelle operazioni e la valutazione per il dopo.

               Fra Joe Biden e Bibi Netanyahu si ha notizia del primo contatto dopo mesi di silenzio. A parlare per l’Amministrazione è stato il Segretario di Stato durante le quattro missioni nella regione. Il messaggio inascoltato avrebbe irritato il Presidente che, alla fine, ha parlato direttamente con il difficile interlocutore. Le simpatie di Netanyahu vanno al Partito Repubblicano, la sua speranza è tirare fino a novembre quando alla Casa Bianca potrebbe tornare l’amico Donald Trump.

A Trump si devono alcune decisioni cruciali: il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan, strappato alla Siria nel 1967;  il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ed il trasferimento dell’Ambasciata da Tel Aviv; l’avvio degli Accordi di Abramo per la normalizzazione con alcuni paesi arabi.

               Dagli Accordi di Abramo manca la gemma più pregiata: l’Arabia Saudita. Il Regno è Custode dei Luoghi Santi di Makkah al Mukarramah (Mecca) e Medina, riveste un ruolo centrale nell’Islàm. Il suo avvicinamento a Israele segnerebbe la svolta nei rapporti dello stato ebraico con il Dar al-Islàm, la comunità musulmana.

               Riad pone alcune condizioni al riconoscimento: Gaza deve restare palestinese, i Palestinesi meritano uno stato. Sul secondo punto  Netanyahu ha la riserva di sempre. Per la prima volta, dopo averla limitata ai colloqui diplomatici, l’ha esplicitata in conferenza stampa. Ha invocato il controllo di Israele sulla zona dal mare all’est del Fiume Giordano, e dunque a tutto l’eventuale Stato di Palestina.

               Alcune fonti americane darebbero il Primo Ministro meno fermo nella riserva. Sarebbe il prezzo da pagare, almeno in termini verbali, all’insistenza degli Americani. Il dissenso con Washington può essere tollerato entro una certa soglia. La sicurezza d’Israele è legata all’ombrello americano sotto vari profili. Eppure Netanyahu avrebbe  risposto a Biden che l’indipendenza della Palestina contrasterebbe con la sicurezza d’Israele e con il controllo su Gaza.

               Ci sarà il ritorno di Trump? I sondaggi e le primarie nello Iowa lo premiano. Ora è in corso la scelta del candidato alla vice presidenza. Perché il ticket sia completo e  politicamente corretto, la parità di generi attecchisce anche a destra, si punta ad una donna. La prima scelta sarebbe Nikki Haley, già Rappresentante permanente a New York per conto dell’Amministrazione Trump. Solo che Haley ha il torto di contrapporsi a Trump nella corsa alla candidatura. Si pensa allora a Elise Stefanik, di origine cecoslovacca e italiana, che si è distinta nel Partito Repubblicano per la fedeltà a Trump anche quando è stato accusato di sedizione.

               La domanda a questo punto è se Joe Biden, da probabile candidato democratico, confermi il ticket con Kamala Harris. L’attuale Vice Presidente  avrebbe però deluso le aspettative in questi quattro anni al potere.

              

 

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